Il TaTAKESHI KITANO

Dai film noir fino a “L’estate di Kikujiro”




Nato a Tokyo il 18 gennaio del 1947, Takeshi Kitano è conosciuto come uno dei principali registi e sceneggiatori contemporanei, vincitore del Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia 2003 con Zatoichi e del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia 1997 con il film Hanabi. Egli è, forse, maggiormente conosciuto, a livello internazionale, per opere quali la trilogia Outrage, un insieme di tre yakuza eiga (film di yakuza) iniziata nel 2010. La trilogia comprende: Outrage, Beyond Outrage (2012) e Outrage Coda (2017).

La carriera di Takeshi Kitano inizia negli anni Settanta, come comico manzai (una sorta di stand-up comedy), facendo parte del duo Two Beat, dal quale poi si staccherà per diventare uno dei più acclamati comici giapponesi. Dopo aver intrapreso alcuni ruoli da attore, produce il suo primo film nel 1989, Violent Cop (Un poliziotto violento), e raggiunge il successo internazionale grazie a Sonatine.                                                                           Interessante notare come, per quanto riguarda Violent Cop, Kitano fu scelto inizialmente per il ruolo di attore, ma, in seguito a un disaccordo con il cineasta, egli ne ottiene la regia nel 1989. Kitano si ritrova quindi a lavorare con una sceneggiatura piena di dialoghi e molto vicina ai cliché di quel genere, decidendo però di sfoltirla e renderla minimale, al fine di creare una felice «commistione tra violenza e poesia».

Scenografie ridotte all’essenziale, [...], la musica utilizzata solo come punteggiatura, gli attori resi inespressivi e imperturbabili, i dialoghi [...] ridotti a poche linee e con minore rilevanza rispetto ai silenzi.

Parlando di Sonatine, invece, si può affermare che il film sia stato il primo vero successo, fino a quel momento, per il regista giapponese. Si tratta di uno yakuza eiga, il quale accosta le candide spiagge di Okinawa con «scorci di una metropoli brulicante di violenza». Nel film, i dialoghi sono ridotti ad accenni, ed i personaggi appaiono, al contempo, alla ricerca di una morte da antieroe e perturbati da una «incolmabile solitudine».

Come già accennato, saranno i film di stampo noir e gli yakuza eiga a procurare a Kitano la fama internazionale. Tuttavia, è d’obbligo notare come lo stile del regista subisca una netta trasformazione a partire da film come Kids Return (Ritornare ragazzi), del 1996, e Hanabi, (1997).

Tale trasformazione può ricollegarsi ad un gravissimo incidente motociclistico subito dal regista, nel 1994, che ha portato Kitano ad allontanarsi dagli schermi e l’ha costretto ad una lunga riabilitazione. Egli, nelle sue nuove pellicole, mostra dunque una «radicale svolta nel suo atteggiamento nei confronti della vita, che sembra ora essere per lui diventata un bene primario [...] e degna di essere vissuta pienamente.»

Kids Return vede come protagonisti due liceali, Shinji e Masaru, giovani turbolenti e completamente disinteressati dalla scuola. I due amici intraprendono strade differenti, uno come atleta di box, e l’altro come parte della yakuza. Così le loro vite si allontanano, fino, però, a un ricongiungimento finale. I due ragazzi, che hanno entrambi fallito sulla strada per il successo, si incontrano nuovamente e ritrovano speranza per il futuro.

Nonostante, quindi, le esperienze violente e la solitudine che pervade tutte le pellicole di Takeshi Kitano, in questo film rimane acceso un barlume di speranza nei confronti dell’amicizia. Anche Hanabi, sebbene si avvicini maggiormente alla tradizione noir, porta in se i semi di un cambiamento stilistico che tinge il film di spunti autobiografici, e oscilla «tra l’impietosa iperviolenza kitaniana e le sfumature più delicate dell’amore e dell’amicizia.»

L’apice, forse, di tale inversione di rotta, nello stile di Kitano, si può ritrovare in L’estate di Kikujiro, del 1999. Durante l’estate, un bambino, rimasto a vivere solo con la nonna, decide di ritrovare sua madre. Il suo compagno d’avventura sarà il marito di una vicina di casa, ed è grazie a questo buffo individuo che il bambino potrà vivere un’esperienza unica. Il film è caratterizzato dal timbro quasi comico degli slapstick e la narrazione viene spezzata in modo evidente in “episodi”.

 

Infine, si può concludere che i film successivi del regista riprendano il fil rouge dello yakuza eiga, (vedasi ad esempio Brother del 2000), ma è interessante sottolineare come da una simile disgrazia, quale il suo grave incidente, Kitano abbia permesso a se stesso di aprire i propri orizzonti creativi, attraverso una ritrovata fiducia nei confronti dell’altro e della vita.  



 di Irene Canuto

TAKESHI KITANO Dai film noir fino a “L’estate di Kikujiro”

Cinema

Your Name
Regia: Makoto Shinkai


Il poema visivo di due vite che si intrecciano

“Sono sempre alla ricerca di qualcosa…o di qualcuno”.
Makoto Shinkai è l’astro nascente dell’animazione giapponese. Ha conquistato l’attenzione del pubblico grazie a 5 centimetri al secondo, il suo primo grande successo, che ha definitivamente codificato lo stile del regista: colori mozzafiato, forti sentimenti, malinconia. Your Name è il suo ultimo lungometraggio animato, enorme successo di incassi al botteghino in tutta l’Asia, è riuscito a far parlare molto di sé anche negli USA e in Europa.
Your name è la storia di due ragazzi che non smettono mai di cercarsi. Il breve riassunto della trama riportato dalle fonti ufficiali è assolutamente fuorviante. Viene presentato come un film in cui un ragazzo, Taki, e una ragazza, Mizuha, si scambiano i corpi. Your name è molto di più: ai due ragazzi capita effettivamente di scambiarsi i corpi, ma questa è solo la premessa per raccontare altro.
D
ue concetti guidano la trama e lo svolgersi degli eventi: il nome e musubi.
Il nome nella cultura giapponese ha una valenza molto profonda. Esso rappresenta l’essenza di una persona, il suo Essere. Il significato del nome determina il destino stesso di un individuo: il nome è un incantesimo, un tesoro da custodire.
Per fare qualche esempio, ne La città incantata di Miyazaki, la strega Yubaba si impossessa del nome di Chihiro per farla lavorare per lei, mentre Haku ritrova se stesso proprio quando riesce a ricordare il suo vero nome. Oppure il grande pittore Hokusai ha cambiato nome diverse volte nel corso della sua vita, spesso in relazione all’evoluzione del suo stile, come a testimoniare la nascita di un pittore totalmente nuovo.
Non a caso, quindi, il nome è ciò che permette a Taki e Mizuha di avere memoria l’uno dell’altra, di potersi ricordare e quindi trovare.
Musubi è l’intreccio:
“Unire i fili insieme è musubi,
connettere le persone insieme è musubi,
lo scorrere del tempo è musubi”
Musubi sono i fili del tempo e del destino, che si intrecciano, si torcono, si sciolgono e tornano ad intrecciarsi. Anche ciò che sembra perduto può ritornare, magari in modo inaspettato.
La trama, infatti, ha la struttura circolare: la storia inizia nel presente e si risolve nel presente, mentre il racconto appare come un lungo flashback. Una particolarità curiosa è che i titoli di testa hanno la forma di una classica sigla di serie anime da televisione, scelta insolita per un lungometraggio.
Il susseguirsi degli eventi è incalzante: all’inizio la curiosità dello spettatore è attirata dal voler capire il mistero dietro i protagonisti, ma con il procedere della trama e l’intensificarsi dei momenti e delle situazioni, si rimane incollati allo schermo, cercando di immaginare “come andrà a finire”. Inoltre, lungo tutto il film sono presenti battute, piccoli elementi comici che alleggeriscono la trama senza scadere in un umorismo infantile.
Visivamente, il film si inserisce perfettamente nello stile delle precedenti opere di Shinkai: una pressoché infinita tavolozza di colori, ampie panoramiche e attenzione quasi maniacale al dettaglio, tanto da mostrare persino l’intreccio dei fili nei tatami.
Molto suggestive le panoramiche di Tokyo, quasi un inno alla città che sembra non riposare mai.
Your name è, a oggi, l’opera più matura di Shinkai, dove la trama riesce a reggere l’incredibile bellezza dell’animazione. La storia riesce ad armonizzare forti sentimenti, riferimenti culturali, elementi fantastici e umorismo, in un equilibrio che non era mai riuscito a ottenere prima.

Anna Noci

Silence
Regia: Martin Scorsese


Un film che oltre a intrattenere fa ragionare

Il film Silence, ultima opera di Martin Scorsese, è uscito da poco nelle sale italiane e si presenta al pubblico con la sua imponente durata di 161 minuti. Ma non temete, il film scorre piacevolmente e si offre, all’osservatore attento, per più livelli di lettura. Ispirato al romanzo Chinmoku di Shūsaku Endō, ci introduce progressivamente in una storia travagliata, quella dei cristiani in Giappone. Il film può essere visto come la trasposizione per immagini di un romanzo storico, un’avventurosa e tormentata ricerca perfettamente inserita in un esotico affresco, quello del Giappone del periodo Tokugawa. È in questo contesto, quello di un’isola straniera, che due padri gesuiti portoghesi, Padre Sebastião Rodrigues (Andrew Garfield) e Padre Francisco Garupe (Adam Driver, il Kylo Ren del Risveglio della Forza), partiranno per una disperata impresa: quella di ritrovare il loro antico maestro Padre Cristóvão Ferreira (Liam Neeson), missionario colpito dalle feroci persecuzioni dello shogunato e tacciato di abiura. Inizia così un lungometraggio che ci porterà a scoprire da un lato una vicenda di storia religiosa poco conosciuta, quella dei kirishitan, i cristiani nascosti, che anche in assenza di clero esercitano segretamente la fede, e dall’altro l’esito non scontato della quête personale di un uomo, che sarà portato da cause esterne a percorrere il difficile percorso interiore della fede. Ai due gesuiti europei, pervasi dallo spirito cattolico della missione, si presenterà un Giappone duro, sigillato dietro una coltre linguistica inizialmente impenetrabile, composto di ruvidezze morfologiche che prendono la forma di mare in tempesta, di isole essiccate dalla salsedine, di grotte pietrose e colline isolate da un vegetazione troppo lussureggiante.
Silence parla anche di incontro di civiltà, e ne parla in modo schietto e non edulcorato: ogni incontro è anche uno scontro, soprattutto quando a cozzare sono due visioni del mondo talmente diverse da essere fra di loro quasi non commensurabili. Come potranno 1500 anni di teologia occidentale, di sinodi e concili, di controversie cristologiche incontrare la grande sapienza orientale? Come potrà il contadino, immutabilmente curvo nella risaia da secoli, comprendere le parole di un gesuita portoghese del Seicento, ultimo frutto di quel macchinario filosofico che è la Controriforma? Ecco allora fare la sua comparsa Deus-sama, e il Paradiso immanentizzarsi in terra, dopo aver ricevuto il sacramento del battesimo. Ma come detto non vi è solo scontro, non vi è solo incomunicabilità: la strada del sincretismo è ben nota a molte religioni e non è estranea ai cristiani segreti del Giappone, che oltre a dover preservare la propria incolumità celando anche il più banale simbolo della loro fede, dovevano anche interpretare i nuovi concetti cristiani con le categorie in loro possesso, prevalentemente buddiste.
Ma Silence, come già detto, è anche un film che parla di interiorità, ed è forse questo l’aspetto più interessante: seguire, mi si perdoni il gioco di parole, la via crucis di Padre Rodrigues alle prese con una persecuzione inarrestabile e con il continuo titillare dell’apostasia. Lo scherno di un corpo arso, per non poter essere tumulato secondo i dettami cristiani, è solo l’ultimo tassello di una vessazione crudele, orchestrata dal locale governatore, l’inquisitore Inoue Masashige (personaggio in cui forse la caratterizzazione è troppo stereotipata). Ma il XVII secolo non è il tempo mitico delle persecuzioni di Diocleziano, che sicuramente il gesuita portoghese aveva conosciuto attraverso i grandi cicli agiografici occidentali, e il μαρτύριον, la testimonianza, dei kirishitan è cosa vera, fatta di sangue e di dolore, che si dipana con inesorabile ineluttabilità sotto ai suoi occhi. Ecco che oltre il gesuita appare l’uomo, e come ben altri prima di lui si chiederà “Dio mio, Dio mio perchè mi hai abbandonato?”. E oltre tutto questo si staglierà costante l’ombra del maestro, l’ombra di Padre Ferreira, ma se essa sia minacciosa o rassicurante lo lascio scoprire a voi, se vorrete dar la possibilità a un ottimo film, in grado di far ragionare, oltre che di intrattenere.

Emilio Bardella