Prontuario del perfetto kaishaku

di Ornella Civardi


seppuku


«Quando si funge da kaishaku, se si usa la katana ci si dovrà posizionare a un paio di spanne di distanza, con il piede destro avanzato, mentre per lo wakizashi [la spada corta] basterà una distanza di una spanna e mezzo, e i piedi saranno paralleli. Occorrerà colpire con un movimento dall’alto verso il basso, ruotando la lama finché il palmo che impugna la spada non sia rivolto verso l’alto».1
Il termine kaishaku, che nello Hagakure ricorre diverse decine di volte, designa un particolare gesto rituale – o forse bisognerebbe dire una mansione, un compito – e per estensione anche chi sia deputato a eseguirlo, sebbene in questo caso si dovrebbe più propriamente parlare di kaishakunin. In ogni caso, non c’è dubbio che il compito in questione, a cui Tsunetomo dedica un’attenzione quasi ossessiva, sia dei più delicati. Sia perché si colloca in un momento altamente solenne qual è il seppuku – il suicidio rituale per sventramento, sia perché il morituro ha personalmente provveduto a richiedere con debito anticipo che a svolgerlo sia quella determinata persona, investendola dunque di una considerazione, una stima, una fiducia che per nulla al mondo possono essere tradite.
Ora, come si sa, il seppuku, pur dovendo essere derubricato come suicidio, non riveste affatto il carattere di gesto impulsivo, scatenato da disperazione o depressione, che si riscontra di norma in chi decide di sparire dal mondo. Al contrario, rappresenta il momento della massima affermazione del valore e dell’onore, il culmine di una vita ben spesa o il riscatto di un’esistenza poco lusinghiera, non l’annullamento ma il trionfo del Sé. Proprio per sottolinearne il significato, e il carattere di azione deliberata e ponderata, tutta la procedura di esecuzione è codificata secondo un rituale minuzioso. Dall’ultima coppa di sake alla poesia di commiato da lasciare a futura memoria, dalla veste bianca – segno di purezza – alla tecnica di sventramento, che prevede lo squarcio dell’addome da sinistra verso destra – e non viceversa –, ogni minimo dettaglio è regolato dalla tradizione con il rigore che si riserva alla liturgia religiosa.
L’intervento del kaishaku s’inserisce in questo protocollo nella fase finale, quando l’aspirante suicida ha ormai dato prova della propria fermezza trafiggendosi il ventre in profondità, e ancora trascinando la lama fino in fondo – fino all’estrema destra e poi in alto – con un gesto che ha dovuto compiere vincendo il dolore e l’orrore. È allora, nel momento dell’agonia, quando il morente si ripiega su se stesso e non è più in grado di contenere i propri visceri, che subentra la figura pietosa e al tempo stesso implacabile del secondo officiante, il kaishaku appunto, che con un colpo di spada netto e preciso lo decapita, ponendo fine al travaglio e impedendo insieme che le manifestazioni inevitabilmente scomposte della sofferenza fisica incrinino la solennità della cerimonia e magari anche la dignità del soggetto.
Spulciando fra le pagine dello Hagakure si può mettere insieme un autentico “prontuario del perfetto kaishaku”, a metà fra il galateo e il manuale del boia, con le dritte utili ad affrontare ogni singola fase del compito, i suggerimenti per aggirare le insidie che comporta e la casistica relativa.
Nel passo del Libro X che abbiamo riportato sono impartite le istruzioni dettagliate su come e dove posizionarsi (disposizione dei piedi, distanze, tecnica) per cercare di rendere il colpo unico e infallibile. Infallibile, perché accanirsi ripetutamente sulla nuca dell’agonizzante senza azzeccare il sottile interstizio fra le prime vertebre cervicali che garantisce la morte istantanea, più che un caritatevole soccorso rappresenterebbe una tortura crudele, e soprattutto spoglierebbe di ogni gravità la situazione rendendola tragicamente grottesca. (Fu quello che accadde nel 1970 durante il famoso seppuku di Mishima, e si può star certi che se lo scrittore avesse anche solo lontanamente immaginato l’imperizia e la mancanza di sangue freddo del giovane kaishaku che si era scelto, avrebbe riconsiderato l’idea di tutto il copione che aveva così minuziosamente preparato.)2
Come in ogni impresa di questo mondo, si puntualizza sempre nel Libro X, anche nell’esecuzione del kaishaku, «la regola è essere veloci all’inizio e alla fine, calmi nel mezzo». La velocità è imposta dalla situazione, ma non deve andare a scapito della precisione.
A proposito di precisione, ci fu un’epoca in cui un buon kaishakunin poteva raggiungere vertici di virtuosismo quasi inimmaginabili. Per evitare che la testa, sotto il colpo, schizzasse via, si affermò «l’uso di lasciare intatto un lembo di pelle del collo, in modo che il capo non andasse a cadere davanti agli ispettori» (Libro VIII, passo 82). Era una misura di rispetto per le autorità che dovevano accertare l’avvenuto seppuku, ma anche una delicatezza nei confronti del suicida, la cui morte avrebbe in tal modo evitato di trasformarsi in un macabro siparietto.
A quanto afferma lo Hagakure, però, ai tempi di Tsunetomo la preferenza generale si orientava sulla recisione completa. Lo spiega nello stesso paragrafo un non meglio identificato samurai, autore di una buona cinquantina di decapitazioni: «Certe volte il collo oppone la stessa resistenza di un torace. [… Perciò] per evitare di fare disastri è bene ogni volta tirare il fendente come se si intendesse andare a colpire il suolo». Insomma, meglio andar giù con decisione e staccare di netto la testa, piuttosto che rischiare di rimanere incastrati a metà.
Tuttora, in alcune scuole dello iaidō, l’arte marziale che insegna a sguainare la spada, esiste un kata chiamato kaishaku, forse non del tutto fedele alla tradizione, ma da cui si può grosso modo desumere quale fosse il procedimento. Il kaishakunin, in piedi alla sinistra di chi fa seppuku, si prepara sguainando lentamente la spada e portandola dietro la testa in orizzontale (o tenendola verticale, secondo le scuole). Quando ritiene sia giunto il momento, afferra l’elsa con entrambe le mani in modo da aumentare la forza e abbatte la lama sulla parte posteriore del collo con un gesto ampio e fluido per garantire la migliore penetrazione. A quel punto, se l’intenzione è di lasciare intatta una porzione di tessuto, la mano dovrà diventare estremamente precisa e concludere ritraendo la spada con un movimento detto dakikubi (avvolgimento del collo). Compiuta l’operazione, sempre con lentezza rituale, il kaishakunin rinfodera la spada, si inginocchia per un attimo vicino al defunto, poi si alza e s’inchina, rendendo l’ultimo saluto.
Ma la competenza richiesta al kaishaku va ben oltre questo pur encomiabile esercizio di destrezza. In una simile circostanza, si capisce come intralci e contrattempi siano all’ordine del giorno, e fa parte dei suoi compiti trovare su due piedi l’escamotage per uscire dall’impasse. L’aspirante suicida non sempre è un modello di impavidità. Ishii Jinzaemon, condannato al seppuku3 per aver organizzato un giro di scommesse clandestine, confessa all’amico Kaheiji timori che devono essere stati abbastanza comuni: «Sai, tutti mi credono un mostro di coraggio, ma invece devo essere un vero coniglio a giudicare da come sto in questo momento. Se dovessi agitarmi in modo poco dignitoso nell’agonia, spero che mi diano in fretta il colpo di grazia, almeno non perdo la faccia» (Libro VIII, passo 86). In realtà, pare che quando venne il momento, Jinzaemon si sia comportato in modo ineccepibile, ma non sempre andava così. E il kaishaku era lì per garantire non solo di una buona morte (atroce, ma il meno atroce possibile), bensì del buon nome che quella morte doveva lasciare, dell’onore che doveva mettere in luce.
Edayoshi Yohei, kaishaku scafato, se la vide brutta una volta che aveva accettato di assistere un certo Kanahara. «Ora, accadde che conficcata la spada nel ventre, questo Kanahara si bloccasse e non riuscisse ad allargare lo squarcio. Yohei allora gli si accostò, gridò ehi! e gli pestò un piede. L’urto riscosse il tizio, che riuscì a portare a compimento il gesto» (Libro VIII, passo 81). Mirabile presenza di spirito!
Più difficile fu ridurre a miti consigli Tomoda Shōzaemon, giovane paggio di Mitsushige condannato per furto, che giunto sul luogo del seppuku «divenne recalcitrante e prese a divincolarsi. Fu necessario bloccarlo e distenderlo a forza per poterlo infine decapitare» (Libro VII, passo 15). In generale, il consiglio di Noda Kizaemon, opportunamente esposto nel passo successivo, è il seguente: «Se il condannato al momento del seppuku perde il controllo e comincia a contorcersi, è meglio che il kaishaku non intervenga subito, o quasi sicuramente fallirà il colpo combinando un disastro. In questi casi è bene attendere un poco, quindi chiamare a raccolta tutte le proprie forze, assumere una salda postura e al momento giusto sferrare il colpo».
Compito problematico e ingrato quello del kaishaku, che «se agisce al meglio, non ne ricava comunque alcuna gloria, e se per disgrazia sbaglia, si copre d’infamia per il resto dei suoi giorni» (Libro VII, passo 24). Che fare allora se ti viene richiesta la spinosa prestazione? Tsunetomo su questo non ha dubbi, bisogna farsi coraggio e accettare. Nel passo 36 del Libro I, in cui lamenta il decadimento dei tempi e la penuria di “uomini veri”, cita a riprova della sua tesi anche la scarsa disponibilità dei contemporanei a prestarsi come kaishaku. «Di questi tempi,» dice con disprezzo «è considerato uomo avveduto e di alta spiritualità chi declina la richiesta».
In epoche meno corrotte, i figli dei samurai cominciavano fin da ragazzini a prepararsi a quel sacro dovere. E se la pace non permetteva di beneficiare dell’addestramento in battaglia, si arrangiavano come potevano con fasci di bambù o stuoie arrotolate, i più fortunati con i condannati a morte. «Yamamoto Kichizaemon [fratello maggiore di Tsunetomo], per volere del padre Jin’uemon, a cinque anni dovette uccidere un cane e a quindici un condannato a morte. A quell’epoca un ragazzo di quattordici o quindici anni non poteva sottrarsi a quell’esperienza. Da giovane, anche Katsushige [signore del dominio di Saga], per ordine del padre Naoshige, dovette esercitarsi a decapitare condannati. Pare che una volta gliene abbiano fatti decapitare dieci uno in fila all’altro» dice il passo 14 del Libro VII, e commenta: «Si dice che sia possibile farne a meno, che uccidere un condannato non sia poi quella grande impresa, oppure che sia un crimine, una macchia all’onore, ma sono tutte scuse. La verità è che gli uomini oggi mancano di coraggio, pensano solo a farsi belli e limarsi le unghie».
Il libro di Tsunetomo coglie, come forse nessun altro testo, la dimensione tragica del samurai del periodo Edo, stretto fra l’urgenza di certificare il proprio valore con la spada per legittimare l’appartenenza di casta e l’inerzia forzata della pace Tokugawa, che ha spazzato via tutti i nemici effettivi su cui provarsi. Un eroe obsoleto, lasciato indietro dalla storia, combattuto fra gli imperativi di una legge non scritta – la legge dei padri – che lo obbliga al dovere dell’onore e della vendetta, e gli editti “moderni” dello shogunato che gli impediscono quegli stessi gesti d’onore e di vendetta per una razionale, fredda, estranea ragion di stato.
Il seppuku resta lo strumento estremo concesso al samurai per risolvere la contraddizione inerente alla sua stessa sopravvivenza, il rito catartico che scioglie il problema di coscienza senza minare il diritto dello Stato. Di questo rito il kaishaku è il sacerdote supremo, l’officiante a cui è affidata la responsabilità che tutta la cerimonia si svolga e si concluda nella solennità che le compete. In modo da scongiurare il rischio, serio e sempre incombente, che un malaugurato errore, una imperdonabile goffaggine, un cenno di paura o una carenza di autocontrollo possano ridurre quello che deve essere il momento di suggello di una intera casta e del suo sistema di pensiero in una grottesca e degradante parodia.

1 Yamamoto Tsunetomo, Hagakure (a cura di O. Civardi), Chermignon, Nuinui, 2022, Libro X, passo 134.
2 Morita Masakatsu, che all’epoca del seppuku di Mishima aveva venticinque anni, si era arruolato solo due anni prima nel Tate no kai, il piccolo esercito privato dello scrittore, e in breve era divenuto parte della cerchia ristretta dei discepoli a lui più vicini. Prediletto di Mishima, devotissimo, fu scelto come kaishaku, ma per ben tre volte sbagliò il colpo, finché non intervenne un altro militante del Tate no kai, Koga Hiroyasu, che pose fine all’agonia. Morita fece seppuku a sua volta, e fu sempre Koga a fare da kaishaku anche a lui.
3 Non sempre il seppuku rappresentava una scelta deliberata per lavare una colpa o seguire nella morte il proprio signore (oibara). Qualche volta era una forma di esecuzione comminata per punire un crimine (tsumebara). Se il condannato apparteneva alla classe dei samurai, gli si concedeva almeno l’apparenza della morte volontaria, più onorevole dell’impiccagione, destinata ai ceti inferiori.