Recensione Jisei. Poesie dell'addio

Jisei. Poesie dell'addio
Autore: Ornella Civardi (a cura di)
Editore: SE, Milano

Jisei, l’addio diventa poesia.
Cento autori del Sol Levante
(intervista alla curatrice)


Il mondo che sto per lasciare. È il leit motiv di “Jisei. Poesie dell’addio” (Edizioni SE, 128 pagine, 14 euro) un’antologia fresca di stampa curata dalla piacentina Ornella Civardi, traduttrice e yamatologa fra le più apprezzate in Italia. Jisei è, in giapponese, l’ultimo breve componimento prima del passo più difficile. Un congedo dalla vita. In questo prezioso volumetto – capace di stregare per la raffinatezza e l’intensità dei versi brevi come lampi – le parole ultime hanno un peso speciale, ma verrebbe da dire una speciale levità, persino quando la morte viene affrontata con il sarcasmo, con una sorta di cinico distacco, più spesso con voce intima e pacificata. Il saluto è il distillato estremo di un’esistenza, consegnato a chi ci è prossimo o lontano. È “ponte” tra l’essere e il nulla. Ce ne sono cento di queste sorprendenti poesie, si parte, fra gli autori, dalla grande Ono no Komachi per attraversare nomi ben noti al grande pubblico come Hokusai e Mishima o il kamikaze Yamamoto.

Come nasce quest’antologia di cento componimenti e quali sfide ha posto alla traduttrice?
Come molti dei miei libri, anche questo s’inscrive in un mio personale percorso esistenziale. Viene un momento nella vita di chiunque, credo, in cui ci si comincia a interrogare sull’atteggiamento con cui si sta affrontando il proprio destino, il proprio esserci e il proprio inevitabile, futuro non-esserci. Si comprende allora anche l’importanza che può avere lasciare qualcosa di sé, qualcosa che ci riassuma e in qualche modo ci proietti oltre la nostra fine. Io conoscevo da molto tempo questa tradizione, tutta giapponese, antichissima, di lasciare un’ultima poesia, una poesia-testamento, ma solo qualche tempo fa, di colpo, ho capito tutto il valore di questa pratica. Così mi sono buttata a cercare, raccogliere, catalogare queste centinaia e centinaia di jisei (così si chiamano in giapponese), che sono sparsi nei documenti più svariati, le antologie dei poeti, le cronache storiche, i racconti delle vite dei maestri zen e così via. Prima che di traduzione, quindi, si è trattato di un lavoro sulle fonti, di recupero e selezione dei testi.

Generali, monaci, principi, samurai, ex prostitute, cortigiane, maestri di cerimonie del Tè o creatori di giardini Zen. E poi scrittori, artisti, persino un pilota kamikaze. Gli autori delle poesie dell’addio offrono uno specchio della più varia umanità. Da cosa sono spinti a “coltivare” il distacco?
Jisei significa letteralmente «addio al mondo, commiato dal mondo». Questo estremo saluto ha un senso e un tono diverso per ciascuno, ma per tutti rappresenta in qualche modo un tentativo di mitigare l’angoscia della morte, di affrontare lo spavento dell’ignoto che attende appena oltre la soglia, il Vuoto che digrigna i denti, come dice il maestro zen Daitō Kokushi nel suo jisei del 1338.

Lei ha scelto componimenti a partire dal 900 e fino al 1970. In molti si sente l’influsso di una visione buddista del mondo. Il congedo terreno è percepito come illuminazione, ma anche come spettacolare capriola, sovvertimento cosmico, tra il tono liturgico, quello malinconico e talvolta umoristico.
È vero, c’è tutta una gamma di linguaggi e stili molto differenti. Si può distinguere a prima vista il jisei di un principe o di un nobile di corte da quello di un samurai, anche senza leggere il nome dell’autore. Il primo sarà di una estenuata malinconia, quasi certamente parlerà di fiori e di uccelli, della neve che cade sui susini e delle foglie secche levate dal vento, il secondo sottolineerà l’impavidità del guerriero, lo sprezzo della morte, la lealtà nei confronti del proprio signore o della patria. Ancora diverse sono le ultime poesie dei monaci, che trasferiscono nei loro versi il linguaggio immaginifico, folle, visionario dei testi sapienziali dello zen. Per un monaco la morte è sempre un ritorno a casa, al grembo da cui è stato generato. «A mani vuote sono venuto / me ne vado a piedi nudi, / la partenza e l’arrivo confusi / in un unico segno» scrive per esempio Kozan Ikkyō nel suo addio del 1360. E poi ci sono i jisei delle donne, che sono una presenza consistente e anche, direi, portatrice di una propria specificità. I loro addii sono più delicati e introspettivi di quelli maschili, qualche volta più sfrontati nel mettere sulla carta verità molto intime. Fantastica è la dichiarazione di orgoglio femminile della poetessa Yamakawa Tomiko, morta a 26 anni nel 1909: «Ancora una volta / donna voglio nascere / nella prossima vita, / e innamorarmi dei fiori / e farmi incantare dalla luna».

Nei versi ricorrono spesso le immagini dei fiori di ciliegio e della luna, il cuculo fra gli animali è ampiamente citato, questi “veicoli” di emozione a cosa rimandano?
Scorrendo queste poesie si trova tutt’un erbario, un bestiario, un catalogo di fenomeni atmosferici. Qualche volta questi elementi contengono un significato simbolico, per esempio, il plenilunio è metafora della morte, il fiore di ciliegio della fragilità della vita e così via. Ma insieme sono un riferimento alla stagione in corso, che colloca immediatamente la composizione della poesia (e dunque anche la morte del suo autore) in un preciso momento dell’anno. Se si parla di camelie, significa che la poesia è stata scritta d’inverno, la peonia evoca l’estate, la nebbia l’autunno ecc. Questa semplice annotazione sottrae la poesia (e la morte del suo autore) a una dimensione di eternità e la immette nel fluire del tempo. Ponendo l’accento sull’avvicendarsi delle stagioni, sottolinea l’impermanenza, la deperibilità delle cose. Però – e questa è la grande risorsa che mette in campo – parla insieme di eterno ritorno. Certo, la fioritura dei ciliegi è fugace, ma si ripresenterà l’anno prossimo, la cicala è destinata a morire con l’arrivo del freddo, ma ricomparirà puntualmente la prossima estate. Ecco, questo senso della ciclicità ha in sé un enorme potere medicamentoso. Nell’inarrestabile ciclo della natura, vita e morte non solo si alternano, ma si originano l’un l’altra: in ogni cosa che finisce è già presente l’inizio di qualcos’altro. Questa idea contiene una grande disciplina di accettazione del proprio destino.

Leggendo certe composizioni si direbbe che emerga una bellezza del mondo del tutto nuova negli occhi di chi è già consegnato alla morte. L’imminenza della perdita rende lo sguardo più limpido?
Sì, l’abitudine appanna lo sguardo, porta a dare per scontato quello che si ha, a non vederlo più. Ma come il pericolo di perdere una persona amata ce la fa amare di più, così la consapevolezza che quanto abbiamo intorno sia un possesso sempre provvisorio, sempre sul punto di esserci sottratto, rende più preziosa la bellezza del mondo. Il fiore di ciliegio è tanto più incantevole perché non dura.

A volte il distacco è aspro, spesso è consolatorio, quasi che l’io, cedendo il passo, venisse riassorbito e riaccolto nella natura e ridiventando natura trovasse il senso. Un messaggio “terapeutico” sempre attuale nella poesia giapponese dei nostri giorni?
Il messaggio rimane attuale, ma la tradizione dell’ultima poesia, nei ritmi convulsi della società di oggi, si va inesorabilmente perdendo. C’è però un epigono illustre del 2010, che circola sul web in varie lingue, lasciato da un grande regista di anime, Satoshi Kon. Segno che la funzione del jisei non è ancora del tutto esaurita.

Patrizia Soffientini
dal quotidiano "Libertà" del 7 aprile 2017