Gli eredi prescelti. Adozione e imprese familiari in Giappone
di Anna Noci1
Abstract
Questa ricerca si propone di investigare il ruolo dell’istituzione della famiglia (ie) e, in particolare, dell’adozione, nel perdurare delle imprese familiari in Giappone. La struttura delle aziende familiari giapponesi infatti deriva direttamente dalla struttura della famiglia tradizionale, o ie. Le famiglie erano tipicamente costituite da un ramo principale, o honke ie, e da più rami secondari, o bunke ie: strutturati in modo gerarchico, con l’honke ie in cima e i vari bunke ie che si diramano da esso. Accanto a questa struttura, che ricalca perfettamente la struttura delle aziende differenziate, vi è l’istituzione dell’adozione (yoshi). In Giappone era ed è possibile adottare una persona adulta, solitamente un uomo, che diventa membro della famiglia a tutti gli effetti. L’adozione permette alle aziende familiari di creare nuove alleanze e di cercare un erede adatto alla continuazione dell’azienda nel caso di mancanza di un erede maschio o di inadeguatezza dell’erede di sangue.
Gli studi quantitativi che si sono occupati di misurare le differenze di performance tra imprese familiari e non familiari mostrano che le imprese familiari che hanno un erede scelto con l’adozione hanno una performance migliore rispetto a quelle che hanno eredi di sangue. L’adozione permette infatti di rimpiazzare gli eredi di sangue non talentuosi con persone di talento. I dati mostrano anche che spesso gli eredi diretti sono dei manager migliori, perché la paura di venire rimpiazzati aumenta l’impegno e la motivazione.
Introduzione: le imprese più antiche del mondo
Molte delle imprese familiari più antiche del mondo sono giapponesi: nel 2017 le imprese familiari giapponesi che erano in attività da almeno 100 anni erano più 50.000, con 3.886 imprese in attività da più di 200 anni2. Tra i nomi più famosi e noti anche in Occidente si trovano per esempio l’azienda produttrice di macchine fotografiche Canon o il marchio di salsa di soia Kikkoman. Alcune imprese risalgono addirittura al periodo Edo, come Mitsui, Mitsubishi e Sumitomo, mentre altre ancora vantano origini ancora più anteriori, come la stazione termale Nishiyama Onsen Keiunkan nella prefettura di Yamanashi, che si dice essere in affari dal 705 d. C. Una crescente attenzione è stata rivolta sia in ambito accademico che divulgativo alle imprese giapponesi e alla loro straordinaria longevità, come dimostrano gli articoli apparsi sull’Economist, come “The business of survival” (2004) e “Keeping it in the family” (2012), o i due reportage della BBC “Adult Adoptions: Keeping Japan’s Family Firms Alive” (2012) e “Why So Many Of The World’s Oldest Companies Are In Japan” (2020).
Nell’analizzare le caratteristiche delle imprese familiari giapponesi per cercare di spiegarne la straordinaria longevità, anche la stampa di carattere divulgativo riporta come uno dei fattori chiave il sistema dell’adozione. Sempre l’Economist nel 2013 dedica un articolo proprio all’adozione di adulti in Giappone, “Why Are So Many Adults Adopted In Japan?”, sottolineando come questo sia un aspetto chiave nella sopravvivenza delle imprese familiari, tema trattato anche nell’articolo del 2012, dove l’adozione è esplicitamente citata come una delle più usate strategie di sopravvivenza delle imprese.
La presente ricerca analizza il legame che sussiste tra longevità delle imprese familiari, la struttura tradizionale della famiglia giapponese e l’istituzione dell’adozione. Per impresa familiare si intende generalmente un tipo di impresa dove il processo decisionale e/o la proprietà sono controllati dai membri di una stessa famiglia, spesso per più generazioni.
L’adozione è considerata la strategia chiave per la sopravvivenza delle imprese familiari, in quanto permette sia la continuazione della famiglia nel caso di mancanza di un erede, sia la selezione di eredi migliori qualora i figli biologici non fossero ritenuti adatti. Ma per capire la ragione dell’importanza data alla sopravvivenza della famiglia e dell’azienda è necessario analizzare il sistema di valori associato alla famiglia tradizionale. Il sistema familiare tradizionale giapponese, o ie, è composto da un insieme di tradizioni autoctone e valori confuciani: esso rappresenta non solo la famiglia come entità fisica, dotata di membri, casa e proprietà, ma anche il complesso sistema di valori immateriali, come il comune culto degli antenati, il prestigio e il codice di condotte familiare.
Come riportano Roland e Alexy (2011), nonostante sia stato abolito formalmente nel nuovo Codice civile del 1947, il sistema familiare tradizionale giapponese continua ad essere una potente forza normativa nelle relazioni sociali e familiari. L’immagine di famiglia del dopoguerra è diventata quella di una moderna e urbanizzata forma di ie, dove nonostante il declino della famiglia allargata, persistevano i legami intergenerazionali e gli obblighi di cura verso gli anziani. Oggi il Giappone è uno dei paesi con il tasso di natalità più basso tra i paesi industrializzati e anche il modello tradizionale di famiglia è entrato in crisi, ma nonostante questo, alcune istituzioni tipiche della famiglia tradizionale resistono, tra cui l’adozione. Come vedremo, essa è centrale nello spiegare la straordinaria sopravvivenza delle imprese familiari in Giappone.
1. Il concetto di ie
Secondo Nakane (1970), Kitano (1970) e Kumagai (1992) la struttura e i comportamenti osservati nelle aziende giapponesi hanno le loro radici nella struttura dell’ie, termine che può essere tradotto in modo approssimativo con “famiglia”. Per comprendere in che senso la struttura familiare ha influenzato le organizzazioni di tipo industriale in Giappone è quindi necessario comprendere il complesso sistema di valori e significati associati alla parola ie.
Secondo Kumagai (1992), il carattere cinese di ie 家 significa “persone sotto lo stesso tetto”, in quanto il radicale di tetto è posto sopra quello di persone. Tuttavia, il suo significato è considerato essere ben più ampio: ie si riferisce infatti sia a una dimensione tangibile che a una intangibile. Rappresenta sia le persone che fisicamente compongono la famiglia, ma anche il suo patrimonio, la sua posizione sociale e prestigio. Kitaouji (1971) sottolinea come in ambito anglofono, gli etnografi siano reticenti a usare il termine “famiglia” (family) come traduzione, ma che sia meglio usare il termine “casato” (household), che meglio cattura l’insieme di legami economici e residenziali dei membri del gruppo familiare.
Un altro importante significato connesso al termine ie è, secondo Nakane (1967), “la casa che si costruisce da sola” (the house building itself), nel senso della casa e di tutte le proprietà che da essa vengono costruite dai membri della famiglia. In generale, la parola ie è connessa con tutto ciò che riguarda la casa, il luogo fisico di abitazione, i membri che compongono in nucleo familiare, ma anche la storia familiare (Beardsley et al. (1959:217); cf. anche Dore (1958: 103), citato anche in Kitaoji 1966). Una volta che si è formato, e proprio per questo carattere così complesso che abbraccia vari significati, ci si aspetta che l’ie perduri nel tempo, senza che se ne possa prefigurare la fine (Beardsley 1965: 76), proprio come ci si aspetta che una casa fisica duri nel tempo. Infatti, il concetto di ie include sia gli antenati che i membri viventi della famiglia e questo dimostra come la famiglia sia vista come qualcosa che va ben al di là i singoli individui che la compongono. Alcuni autori, come Vogel (1963) traducono ie come “linea familiare” oppure Plath (1964) come “linea del casato” proprio per questa ragione. Il ruolo degli antenati non è affatto marginale. Si può affermare che la dimensione temporale dell’ie spazi dal presente al passato, includendo in modo attivo, e questo è cruciale, sia gli antenati che gli eredi futuri. L’inclusione degli antenati è spiegabile facendo riferimento al ruolo assegnato a questi ultimi dallo Shinto: la spiritualità autoctona del Giappone venera gli antenati come kami, che diventano quindi parte del pantheon familiare. Continuare la famiglia è quindi continuare anche il culto degli antenati, portare avanti le loro tradizioni e assicurarsi che ci sia sempre qualcuno a pregarli davanti all’altare familiare. Plath (1964) sottolinea anche come la religione familiare (“household religion”) sia di fatto ancora la principale fonte di contatto tra i giapponesi e il mondo del soprannaturale, inteso come dimensione religiosa. Egli inoltre definisce anche esplicitamente la famiglia una “corporation” che idealmente ha un’esistenza perpetua: una volta che la linea genealogica è iniziata, non deve essere possibile farla finire.3 Facendo un salto temporale nella contemporaneità, in un articolo della BBC del 2020 Bryan Lufkin riporta la testimonianza di Tsuen Yusuke, erede del negozio di tè Tsuen che è in attività dal 1160 d.C., che nello spiegare perché ha deciso di ereditare l’attività di famiglia, afferma: “Non è un’attività che ho iniziato io, sto continuando qualcosa che hanno cominciato i miei antenati. Se non l’avessi ereditata io, questa attività sarebbe finita”4. Gli antenati non sono una presenza astratta, ma sono parte integrante dell’ie, la cui attività di famiglia non è, come vedremo, semplicemente qualcosa che si eredita, ma è ciò che essendo stato fondato dagli antenati, va continuato.
Siccome tradizionalmente il sistema familiare giapponese è patrilineare, alcuni studiosi affermano che l’ie sia anche legato al concetto di sistema patriarcale. Sebbene questo è stato senz’altro vero, al giorno d’oggi si sta cercando di superare la predominanza maschile nelle relazioni familiari. Quello che non è cambiato è la concezione dell’ie come qualcosa di più grande dei singoli individui che compongono la famiglia.
Habamata (1991) nota come l’ie di fatto assomigli a un gruppo aziendale con una varietà di opzioni per garantirne la sopravvivenza. Horie (1966) riporta come l’ie sia un’entità a sé stante che viene continuata generazione dopo generazione e che di fatto sta al di sopra dei membri della famiglia, influenzandoli ed esercitando un controllo indiretto. I membri della famiglia giapponese sono uniti sotto l’ie a cui appartengono e governati dalle sue tradizioni: lealtà e subordinazione all’ie sono i primi precetti per ciascuno dei suoi membri. Era implicito che i membri della famiglia si sarebbero dovuti sacrificare per il bene dell’ie, se necessario.
Come già sottolineato, il complesso sistema di significati racchiuso nel termine ie ricorda per certi aspetti un’entità industriale, come un’azienda: qualcosa di più grande degli individui che la compongono, ma della quale questi individui sono il fondamento, qualcosa che va protetto e perpetuato nel tempo, che richiede impegno e sacrifici, ma che è anche fonte di orgoglio e prestigio.
2. La famiglia nella storia del Giappone
Il concetto di ie da solo non basta per spiegare la grande presenza e resilienza delle imprese familiari giapponesi. E’ importante anche considerare come l’ie si sia evoluto e sviluppato nel corso della storia e come la struttura familiare abbia fornito la base per la formazione delle industrie. L’importanza della famiglia in Giappone infatti è un tratto caratteristico fin dagli albori della sua civiltà.
La società giapponese si configura fin dalle origini divisa in unità familiari, o clan. Yamato nasce come una confederazione di clan familiari (uji), strutturati secondo uno schema piramidale: dal ramo principale della famiglia, che rimane il più importante, si distinguevano vari rami cadetti, che rimanevano sempre legati al ramo principale. Con esso i rami secondari potevano intrattenere vari tipi di rapporti, anche di tipo commerciale, ma ciò che manteneva coesa questa rete di famiglie era il culto degli antenati. Gli antenati, divenuti kami del villaggio, erano ciò che teneva uniti il ramo principale del clan con i rami secondari (bunke).
L’arrivo del confucianesimo nel primo secolo dopo Cristo, importato dalla Cina, fornì la base concettuale per questa realtà già esistente e costituì un grande cambio culturale per quanto riguarda la gestione dello Stato. Stimolò infatti la formazione in Giappone di uno stato centralizzato e di una burocrazia governativa. Il Confucianesimo introdusse anche una serie di concetti legati alla vita quotidiana e alla disciplina delle relazioni interpersonali. Quello che è importante in questa sede è il concetto di “pietà filiale” (cinese: hsiao, giapponese: ko). Questo concetto formava un legame tra il sistema confuciano di etica familiare e la lealtà allo Stato (Holcombe, 1997): la relazione tra sovrano e ministri poteva essere la stessa che tra padri e figli. Queste relazioni erano alla base della stabilità dello Stato, ma rimaneva aperta la questione di quale di queste due venisse per prima, la lealtà o la pietà filiale. La soluzione stava nel separare i due piani, ma facendoli rimanere connessi. Lealtà verso la propria casa e pietà filiale non vanno considerate come due virtù separate, ma come equamente necessarie che vanno coltivate insieme, nonostante le sfere del pubblico e del privato rimangano separate.
La vita privata dei cittadini non era però molto influenzata da questa nuova filosofia. Il confucianesimo cambiò la forma dello Stato, ma non la vita dei comuni cittadini. La ragione è che il confucianesimo venne a innestarsi su una realtà che rispecchiava esattamente i suoi precetti, quella dei clan familiari, dando di fatto una spiegazione e giustificazione filosofica di uno stato di fatti esistente. Fu durante il periodo Edo che i valori confuciani influenzarono dall’alto e in modo significativo la vita dei giapponesi di ogni strato sociale.
Dopo la battaglia di Sekigahara e la definitiva unificazione del Giappone da parte dello shogun Tokugawa Ieyasu, il Giappone si chiuse progressivamente al mondo esterno con la politica del sakoku (“paese chiuso”), fino alla chiusura completa da parte dello shogun Tokugawa Iemitsu nel 1641. Il bakufu adottò una politica e un sistema di valori espressamente confuciani: ogni persona doveva assumere un preciso ruolo sociale e adempiere alla sua missione per la società attraverso il lavoro. La società venne quindi divisa in classi: in cima si trovavano i daimyo (i signori feudali), seguiti dai samurai, agricoltori, artigiani e mercanti5. La mobilità sociale era molto ridotta, anche se di fatto non impossibile.
Il sistema della famiglia questa volta venne influenzato dal nuovo assetto della società. Bhappu (2000) sottolinea come il sistema familiare giapponese possedesse alcuni elementi di dominio-sottomissione tipici della Cina, ma anche elementi tipici della concezione di diritti e doveri dell’Europa. Vennero infatti ad assumere un ruolo centrale i concetti di ko e on. Per ko si intendono tutti i doveri verso i genitori, mentre on sono tutti i doveri tra familiari. Questi principi erano la regola inviolabile su cui si fondavano relazioni familiari ed il loro significato pratico cambiava a seconda delle situazioni. La differenza tra il concetto di ko in Cina e in Giappone è che in quest’ultimo il ko si lega indissolubilmente all’on, introducendo un elemento di reciprocità tra i doveri familiari. Mentre in Cina ko è il dovere di onorare e servire i genitori, in Giappone le relazioni acquistano un principio di reciprocità grazie all’equivalenza tra ko e on.
La classe dei samurai, in particolare, enfatizzò il valore del ko, in quanto più vicini alla tradizione confuciana, una filosofia che ben si adattava alla classe guerriera. Le altre classi invece prediligevano il valore dell’on, specialmente le classi mercantili e legate ad attività commerciali, in quanto era importante che ciascuno avesse un ruolo attivo nella casa. Questi nuclei familiari erano molto simili ad una piccola organizzazione industriale e, di fatto, molto legati al ruolo economico svolto dalla famiglia. Ciascun membro dell’ie, inclusi donne e bambini, contribuivano al lavoro e infatti spesso il nome stesso della famiglia rifletteva il mestiere condotto dal nucleo familiare. Ognuno era una preziosa parte dell’organismo più grande che era la famiglia: la rigida gerarchia imposta dal ko non era congeniale a questo tipo di organizzazione. Le relazioni gerarchiche della classe samuraica erano rimpiazzate, nelle famiglie di mercanti, dalla cooperazione e lo status all’interno della famiglia era determinato dall’età e dalla mansione svolta.
È importante notare che questo era principalmente un mondo dominato dagli uomini. Le donne nella società giapponese hanno sempre avuto ruoli molto ristretti e marginali, almeno nella sfera pubblica. Le donne, e le mogli in particolare, gestivano la casa, accudivano la prole ed erano subordinate all’autorità del padre, prima, e del marito una volta sposate. Nel caso in cui il padre fosse venuto a mancare, le donne passavano sotto l’autorità del primogenito maschio presente nella famiglia e, parallelamente, la sposa passava sotto l’autorità della famiglia del marito. La condizione della moglie nella nuova famiglia era particolarmente dura: veniva spesso trattata alla stregua di una serva, subendo tipicamente le angherie della suocera.6
Quando il capofamiglia moriva, l’eredità passava al primo erede maschio in linea di successione, che poteva essere sia il primogenito, sia un genero adottato. La legge del periodo Edo richiedeva esplicitamente che l’ie nella sua interezza passasse dal capofamiglia all’erede maschio designato, che quindi assumeva ufficialmente anche il nome della famiglia. Le donne infatti non potevano ereditare proprietà materiali o nessun altro tipo di patrimonio. Questo è il risultato di un processo di progressivo deterioramento dei diritti delle donne a possedere beni e della loro successiva subordinazione all’autorità maschile, sempre più crescente, specialmente nelle famiglie di samurai. Il processo era praticamente completato verso la fine del XV secolo: il regime Tokugawa completò questo processo grazie alle norme confuciane, che subordinarono legalmente le donne della classe guerriera alla potestà maschile. La successione dell’ie tramite linea maschile divenne il più importante valore sociale, relegando le donne a un ruolo totalmente marginale, il cui unico valore era la capacità riproduttiva e la possibilità di essere usate come merce di scambio. La centralità dell’erede maschio è un primo motivo dello sviluppo e persistenza dell’adozione di persone adulte in Giappone: una famiglia senza un erede maschio poteva sempre adottare un bambino o direttamente un adulto per perpetuare la famiglia.
Il capofamiglia non era semplicemente la persona alla guida della famiglia: era il simbolo del casato, la personificazione delle divinità protettrici della casa. Alla sua morte, egli si univa al culto degli antenati e diventava una delle divinità protettrici della casa, ma solo il capofamiglia aveva questo privilegio. Horie Yasuzo (1966) scrive che i membri della famiglia non erano subordinati al capofamiglia solo in quanto appunto primo nella gerarchia familiare, ma anche in quanto personificazione dei valori dell’ie. Il capofamiglia stesso non viveva solo per se stesso, ma per perseguire il bene e la prosperità dell’ie e il suo compito era di trasmettere i valori dell’ie di generazione in generazione. Una conseguenza importante di questo è che l’ie in un certo senso assorbiva le stesse individualità dei membri della famiglia. Gli interessi della famiglia avevano l’assoluta priorità, addirittura al di sopra dei singoli individui. Un esempio molto comune era quello dei mariti costretti a ripudiare le mogli perché non in grado di avere figli. I poteri riservati al capofamiglia erano considerati necessari per adempiere agli affari della famiglia verso lo stato e verso se stessa, oltre che per preservare il patrimonio della famiglia per le future generazioni.
2.1. L’età moderna e contemporanea
Nel 1853 le navi nere del commodoro Mattew Perry arrivarono al porto di Uraga, nella prefettura di Kanagawa. Era la fine del sakoku e l’inizio della graduale apertura del Giappone al resto del mondo. Il malcontento per come lo shogunato gestì i primi contatti con gli occidentali portò alla Restaurazione Meiji del 1868: un gruppo di daimyo ostili ai Tokugawa approfittò del periodo di debolezza dell’ultimo bakufu per rovesciarne il potere e stabilire un’oligarchia sotto l’autorità imperiale. Agli oligarchi Meiji fu subito chiaro quanto il Giappone fosse arretrato in termini di conoscenze e competenze tecnologiche rispetto all’Occidente e, per paura di subire lo stesso destino di Cina e India, intrapresero un processo di modernizzazione forzata del paese. La cultura e il sapere dell’Occidente vennero importati in modo massiccio e studiosi giapponesi vennero mandati all’estero per studiare vari aspetti della cultura occidentale, tra cui l’organizzazione statale. Anche le istituzioni statali vennero modificate: nel 1889 venne approvata la Costituzione e nel 1890 vennero tenute le prime elezioni con base di voto maschile e per censo. Un importante prodotto del rinnovamento statale fu la promulgazione del Codice civile nel 1898, che rimase valido fino al 1948. Il Codice civile Meiji aveva sezioni che regolavano anche i rapporti familiari: al marito venne conferita piena autorità sulla moglie e i figli e ogni membro della famiglia doveva essere registrato nel Registro delle Famiglie, istituito nel 1871. L’appartenenza a una specifica famiglia era la condizione necessaria per godere dei diritti civili. Questo sistema è detto koseki e serviva ad assicurare che ogni coppia con figli condividesse lo stesso cognome, tipicamente quello del padre7. Questi due sistemi sancirono il riconoscimento legislativo dell’autorità patriarcale, in quanto spostavano anche i diritti di possesso della terra, ma anche gli oneri della tassazione, sul capofamiglia. Quest’ultimo aveva inoltre potere di decisione su matrimoni, domicilio dei membri della famiglia e su tutte le questioni ad essa rilevanti. La nuova legge prevedeva inoltre la legale successione del primogenito maschio della famiglia.
In realtà, il Codice civile Meiji non aggiunse molto a livello normativo, ma si limitò per lo più a codificare le pratiche tradizionali di successione e gestione della famiglia tipiche della classe samuraica, sebbene queste fossero meno del 10% della popolazione. Queste pratiche però, come abbiamo visto, erano peculiari delle famiglie di samurai e quindi sentite dalle altre famiglie come un’imposizione. Di fatto il Codice Meiji istituzionalizzò il sistema patrilineare, privilegiandolo rispetto ad altri sistemi di successione che continuavano a essere diffusi nel periodo Edo. Il governo Meiji si assicurò che questo sistema si diffondesse quanto più velocemente possibile usando punizioni per chi vi si ribellava. (Nonoyama, 2000).
Sotto questo assetto legislativo, le donne persero anche quei diritti e responsabilità che detenevano de facto se non de jure , in quanto potevano sempre gestire il patrimonio familiare anche senza un riconoscimento formale, per esempio quando l’erede designato era ancora un infante.8 (Ikegami, 1995).
Come già detto, il Codice civile Meiji rimase in vigore fino al 1948. Sebbene i cambiamenti più significativi si ebbero nel secondo dopoguerra, qualcosa era già in modo da ben prima. Negli anni Venti e Trenta ci furono movimenti femministi che chiedevano una maggiore inclusione delle donne della vita sociale e politica. Non ottennero nulla di fatto, ma erano comunque un segno importante del fatto che le donne fossero consce della propria subordinazione.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale ci furono molti cambiamenti sul fronte dei diritti civili. Uno degli argomenti più sentiti era la riforma della famiglia e l’abolizione dell’istituzione dell’ie prebellica, per adottare un modello in stile occidentale. Il sistema patrilineare sotteso all’ie prebellico era considerato un retaggio feudale da abolire per rendere la famiglia più democratica e moderna. (Nonoyama, 2000). La nuova Costituzione, scritta dalle forze di occupazione, fu approvata nel 1947 e sancì l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, vietando le discriminazioni per razza, sesso o stato di nascita. Sancì anche l’uguaglianza di entrambi i sessi all’interno della famiglia. Questo punto in particolare vide l’opposizione dei partiti più conservatori che vedevano in questo un potenziale distruttivo per la famiglia tradizionale. Tuttavia, la tradizionale famiglia basata sull’autorità patriarcale era vista dalla maggioranza come un ostacolo per la modernizzazione del paese. I nuovi principi della Costituzione vennero concretizzati nel nuovo codice civile: le donne tornarono ad essere avere il diritto di possedere beni, di ereditare e le regole di successione vennero rese uguali per marito e moglie, così come le condizioni per il divorzio. Per accontentare i sostenitori del vecchio regime venne inserita una clausola di mutua assistenza tra discendenti diretti che vivevano nella stessa casa. In realtà il nuovo Codice civile non ebbe un impatto immediato sulla famiglia: il nucleo familiare continuava ad avere la priorità sui singoli individui e le regole di successione, così come il ruolo della donna, rimasero di fatto immutati nella pratica quotidiana. Il cambiamento effettivo si ebbe con l’urbanizzazione e lo sviluppo economico, che, a partire dagli anni Cinquanta, cominciò a essere sostenuto e a mostrare i suoi effetti sulla società.
Le coppie che si spostavano dalla campagna alla città di fatto rompevano la tradizione della famiglia allargata, con più generazioni che convivevano sotto lo stesso tetto. Nonostante la pratica dell’omiai , il matrimonio combinato, fosse ancora molto usata, dagli anni Settanta si cominciò a delineare un incremento dei matrimoni d’amore, con partner scelti liberamente. Questo è uno dei motivi per cui molti studiosi non considerano più la famiglia giapponese come patriarcale, ma usano espressioni come “democratizzazione della famiglia” per sottolineare il movimento verso ruoli più equi. Alcuni sostennero anche che la ridefinizione della famiglia su base coniugale fosse la fine dell’ie e che fosse giunto il momento del suo definitivo superamento (Nonoyama, 2000). Durante la crisi economica degli anni Novanta, la famiglia giapponese subì ancora cambiamenti significativi. Il numero dei matrimoni cominciò a calare e sempre più giapponesi rimanevano single. Allo stesso tempo i divorzi aumentavano e l’età media della popolazione si alzava, portando il Giappone ad essere uno dei paesi con la più alta percentuale di popolazione anziana. Il calo del tasso di fertilità sotto la soglia di rimpiazzo avrà un impatto significativo sui rapporti intergenerazionali, in quanto si avranno sempre meno persone giovani che si prenderanno cura delle persone anziane. (Rebik and Takenaka, 2006).
3. Struttura familiare ed imprese familiari
L’analisi dell’ie è uno strumento essenziale per capire la formazione e lo sviluppo delle imprese familiari in Giappone. La struttura delle imprese familiari infatti, anche di quelle attuali, deriva dall’organizzazione della struttura familiare di un particolare tipo di famiglie, quelle dei mercanti.
Le famiglie dei mercanti possono infatti essere considerate i precursori delle moderne imprese giapponesi (Bhappu, 2000). Queste famiglie erano formate da un ie principale, o honke ie, e da uno o più rami secondari, o bunke ie. Come abbiamo visto, questa struttura non era una novità delle famiglie mercantili, ma la struttura tradizionale fin dal tempo degli uji. Per le famiglie di mercanti però questa struttura si intrecciava ed era resa funzionale ai loro interessi commerciali. Era innanzitutto un modo per espandersi territorialmente, ma anche una strategia di sopravvivenza per la famiglia attraverso le varie generazioni. I figli non destinati ad ereditare il ramo principale dell’ie potevano stabilire un bunke ie, spesso con il conseguente trasferimento di terra o altre proprietà. Il bunke ie manteneva con l’honke ie relazioni basate sui principi di ko e on, stabilendo un forte legame verticale tra le due parti dell’ie. L’insieme di honke ie e bunke ie è detto dozoku ed era strutturato in modo gerarchico e verticale, come una piramide con l’honke ie in cima e i vari bunke ie che si diramano da essa. C’era anche una gerarchia tra i bunke ie: il criterio era la distanza in termini di parentela dall’honke ie. I legami di sangue diretti con la casa principale garantivano un rango maggiore rispetto ai bunke ie formati dai figli adottivi, ma almeno in linea di principio, ogni bunke ie con lo stesso grado di parentela era considerato di pari rango. Il principio dell’ie formava il legame che teneva insieme il centro e i rami e sia honke ie che i bunke ie continuavano ad esistere come un unico ie.
Kitano (1962) osserva come il concetto di ie sia inseparabilmente connesso con la formazione e la struttura del dozoku, in quanto le relazioni di parentela tra honke ie e bunke ie sono rese possibili appunto attraverso l’ie. L’appartenenza all’ie mantiene vivi i legami familiari e contribuisce alla continuazione delle relazioni tra i vari rami della famiglia.
L’honke ie fonda un nuovo ramo della famiglia come bunke ie e ne rimane legato in quanto entrambi parte dell’ie, mentre il bunke ie riconosce l’honke ie come la famiglia originaria e quindi la sua subordinazione a essa. Di conseguenza, nel fondare il bunke ie, l’honke ie trasferisce una parte della proprietà e assiste il nuovo ramo della famiglia: in questo modo le due parti dell’ie sono connesse e il bunke ie può usare il nome e lo stemma di famiglia dell’honke ie. Dopo alcune generazioni, il bunke ie può a sua volta diventare honke ie di un nuovo casato, ma questo dipende dai cambiamenti nella prosperità economica dei vari rami della famiglia.
Questo tipo di struttura è assolutamente identica a quella di un’azienda diversificata. Come nota Bhappu (2000) la famiglia giapponese, che la si consideri come ie o dozuku, era di fatto assimilabile a una corporation che univa elementi economici, sociali e morali. Era caratterizzata da una rete di legami gerarchici all’interno dello stesso ie e tra i diversi ie facenti parte del dozuku, che a loro volta erano governati dai principi di ko e on. La selezione per entrare nella famiglia (Bhappu, che scrive in inglese, usa l’espressione “corporate family”) avveniva per lo più attraverso le nascite, ma anche attraverso i matrimoni e l’adozione, in cui gli adottati prendevano il cognome della famiglia. Il fatto che anche persone adottate diventassero membri della famiglia a tutti gli effetti è un carattere peculiare della realtà giapponese, in quanto per esempio in Cina, solo i consanguinei potevano diventare membri della corporate family. Ogni ie aveva di fatto un suo proprio business e delle proprietà (asset) legate a quest’ultimo. L’ie si configurava quindi composta da persone, che andavano dai discendenti fino agli eredi futuri, e di asset materiali che erano intesi per essere tramandati alle generazioni future. L’attività di famiglia e le proprietà ad essa connesse erano in una relazione di interdipendenza: la prima permetteva alle proprietà di espandersi, mentre le seconde provvedevano ai fondi per l’attività di famiglia (Horie, 1966).
Un’altra caratteristica dell’ie comune alle moderne corporation è la separazione tra proprietà e management. Nelle famiglie più piccole, solitamente il capofamiglia era sia il padrone dell’attività che il manager, ma nelle famiglie più grandi spesso queste due funzioni erano svolte da persone diverse.
Le imprese familiari inoltre avevano un rigido codice di concotta che disciplinava i comportamenti dei membri della famiglia. Morikawa (2001) riporta il caso della famiglia Konoike che aveva tra le regole del proprio codice di condotta, approvato nel 1723, una norma che prevedeva che ogni erede dovesse osservare i valori e regole della famiglia fino al trasferimento dell’azienda al successivo erede legittimo. Quest’ultimo, inoltre, doveva considerare l’impresa familiare come qualcosa che gli era stata affidata dagli antenati e non quindi un possedimento personale. Questo dimostra come il concetto di impresa familiare fosse qualcosa che andava oltre la sfera del singolo e come fosse sì un’entità legale, ma era anche qualcosa di molto più grande della somma dei singoli individui che la componevano.
Un aspetto importante era quindi il divieto di considerare le imprese familiari come una proprietà privata dei singoli membri della famiglia. Anche l’accumulazione della ricchezza, o di capitale, non era intesa per fini individualistici: il senso di aumentare la ricchezza era per la prosperità dell’ie e per il suo perpetuarsi. Le famiglie di mercanti erano solite espandere la loro fortuna sulla base della casa stessa e non tramite la distribuzione di dividendi. Anche se l’attività di famiglia era redditizia e la famiglia così aumentava così i suoi profitti, il lusso era malconsiderato e ci si aspettava che comunque i membri della famiglia continuassero a condurre una vita modesta. Il patrimonio accumulato serviva per la sopravvivenza e l’espansione dell’ie e non per l’arricchimento personale dei membri della famiglia.9
La struttura delle famiglie di mercanti è legata allo sviluppo delle industrie giapponesi, ma è da sottolineare che queste famiglie non potevano essere considerate industrie vere e proprie. Le famiglie costituirono i presupposti per la formazione delle industrie, ma non erano, almeno all’inizio, industrie esse stesse. Horie (1966) sottolinea come la base della formazione delle industrie in epoca Meiji sia stata la struttura dell’ie e non condizioni economiche preesistenti. In epoca pre-Meiji ci sono state associazioni di artigiani e mercanti chiamate kabunakama, ma esse non avevano né gestivano risorse finanziarie. Non c’erano realtà come una regulated company, dove ogni membro gestiva il proprio commercio per mezzo di un patrimonio comune, sotto l’amministrazione di un governatore o tesoriere.
Il modo tradizionale di pensare la famiglia si conservò anche dopo l’apertura del Giappone all’Occidente. In particolare, l’organizzazione delle imprese familiari non andò distrutta e, anzi, le nuove tecnologie vennero assorbite e adattate per potenziare ed espandere le imprese familiari di tipo tradizionale. Horie (1966) riporta una citazione di Harbison dove afferma che la caratteristica principale della modernizzazione economica del Giappone è stata proprio l’espansione delle pratiche e del modo tradizionale di pensare. L’obiettivo principale del governo durante il periodo Meiji era quello di colmare l’enorme divario culturale e tecnologico tra il Giappone e l’Occidente. L’idea di “industria” (corporation) venne introdotta in Giappone proprio in questo periodo, ma si diffuse tra la popolazione almeno un decennio più tardi. L’intenzione del governo era quella di incoraggiare la formazione di attività economiche nella forma di industrie: il rapido sviluppo delle industrie giapponesi è stato determinato anche dal fatto che il nuovo concetto di industria si adattava perfettamente alla struttura dell’ie, che tra l’altro aveva già maturato delle caratteristiche tipiche delle società per azioni, come la separazione tra proprietà e management. Nonoyama (2000) sottolinea come la codificazione della successione patrilineare da parte del governo Meiji di fatto contribuì alla rapida industrializzazione del Giappone: i secondogeniti e terzogeniti, non potendo ereditare il ramo principale, erano costretti a trovare un lavoro esterno alla famiglia o a fondare una nuova impresa come ramo secondario.
Uno dei più famosi esempi di imprese familiari che si delinearono compiutamente come tali dopo la Restaurazione Meiji è quello degli zaibatsu. Per zaibatsu si intende una concentrazione di capitale industriale e finanziario, spesso controllata da una sola famiglia. Le famiglie dei quattro zaibatsu più antichi e famosi, Mitsubishi, Mitsui, Sumitomo e Yasuda, ebbero origine nel periodo Edo, per la maggior parte provenienti dalla classe dei samurai, ma ci furono anche zaibatsu che si formarono successivamente, tra i periodi Meiji e Showa, come Ōkura, Furukawa, Nakajima Hikōki Kabushiki Kaisha, e Nissan. Gli zaibatsu divennero molto potenti e influenti durante il periodo Showa, anche grazie alla collusione con il governo e politiche favorevoli da parte dello stesso. Quello che è interessante rilevare in questa sede è che gli zaibatsu mantenevano la struttura piramidale e gerarchica del dozoku, con a capo la famiglia fondatrice e i vari rami cadetti che si occupavano di business diversificati o di attività finanziarie. (Okada, 1952). Inoltre è rilevante notare come nonostante siano stati formalmente aboliti durante l’occupazione americana (1945-1952), molte delle famiglie esistono ancora e fanno parte dei keiretsu, organizzazioni industriali diversificate in senso orizzontale e non verticale, prediligendo quindi rapporti di cooperazione.
La struttura familiare tradizionale è quindi un elemento essenziale per spiegare la formazione delle imprese familiari in Giappone e la loro struttura. La sopravvivenza della famiglia, e quindi dell’impresa, era l’obiettivo principale delle famiglie imprenditrici e l’adozione era lo strumento di gran lunga più utilizzato ed efficace a questo scopo.
4. L’adozione in Giappone
Una trattazione completa dell’adozione va oltre lo scopo della presente ricerca, ma è comunque importante spiegare brevemente in cosa consiste l’adozione in Giappone, e in particolare l’adozione di persone adulte. Il termine giapponese per adozione, yoshi, ha le sue radici semantiche nella cura dei bambini, ma denota anche relazioni tra adulti. Lo scopo dell’adozione non è necessariamente di formare una nuova famiglia, ma può esserci adozione anche per scopi di eredità o economici: siccome il divieto di incesto riguarda solo matrimoni tra consanguinei, una donna può sposare un uomo che è stato adottato dalla famiglia della sposa, diventando un mukoyôshi (marito adottato) (Hayes and Habu, 2006).
In passato essere un mukoyôshi non era uno status invidiabile, soprattutto se il marito adottato era un perfetto estraneo rispetto alla famiglia di adozione. Si trovava infatti in una situazione analoga a una sposa che entra nella famiglia del marito, ma senza quella considerazione sociale che vedeva come un valore il fatto che la donna fosse in una posizione inferiore rispetto al marito. Un mukoyôshi non riceveva questo tipo di sostegno, ma anzi soffriva dell’umiliazione di essere allo stesso rango di una moglie, in una società dove gli uomini avevano generalmente uno status sociale più elevato delle donne10. (Befu,1962). Nonostante questo, l’adozione di persone adulte era molto comune: la continuità della famiglia è considerato un valore importante, tanto da richiedere che alcuni uomini sacrifichino il loro status.
L’adozione, nonostante fosse già praticata prima del periodo Edo, fu ufficialmente riconosciuta e disciplinata a livello legislativo dallo shogunato Tokugawa. Il governo impose solo poche restrizioni alla possibilità di adottare bambini o adulti: solo la classe dei samurai aveva restrizioni più stringenti, in quanto la presenza di un successore nelle famiglie di samurai permetteva a queste ultime di continuare a ricevere dal governo lo stipendio garantito a tutti i samurai. L’adozione avrebbe permesso di continuare a percepire questo stipendio anche in assenza di un erede diretto, cosa che avrebbe comportato ulteriori spese per il governo.
L’adozione era inoltre uno dei modi per manipolare il sistema delle caste. Per esempio, un mercante che avesse avuto la disponibilità economica poteva accordarsi per far adottare il proprio figlio da una famiglia di samurai, di fatto comprandone così lo status. È da ricordare che durante il periodo Edo le famiglie di samurai, pur mantenendo il loro prestigio dato dalla casta, avevano progressivamente visto ridursi le loro entrate a causa della progressiva perdita di valore del riso e delle mutate condizioni economiche che avvantaggiavano il commercio e la manifattura. Alcune famiglie dovevano ricorrere ad altri mezzi per assicurarsi lo stesso livello di benessere di inizio periodo Edo, o addirittura per poter sopravvivere. Questo permetteva un certo grado di mobilità sociale e permetteva inoltre di poter scegliere gli eredi migliori: nell’esempio precedente, il mercante traeva vantaggio di accedere a una casta superiore, mentre la famiglia di samurai costruiva un legame permanente con una famiglia economicamente più facoltosa. Nel Giappone contemporaneo, dal 1988 sono possibili due forme di adozione: la prima, detta adozione speciale (tokubetsu yoshi), consiste nell’adottare un bambino di età inferiore a 6 anni. Questo tipo di adozione è stato importato dall’Occidente e, al contrario di ciò che avviene in quest’ultimo, è usato raramente. Il secondo tipo, più usato, è detto adozione ordinaria (yoshi engumi o futsu yoshi) e consiste nel contratto di adozione tra due adulti. La persona adottata è in generale un maschio adulto che accetta di assumere il cognome della famiglia adottante e acquisisce il diritto ad ereditarne le proprietà. L’adozione di adulti è talmente più importante e usata di quella di minori che la stessa parola che si usa per adozione nel linguaggio parlato è intesa significare “adozione di adulti” e se si intende l’adozione di minori bisogna invece specificare che si sta parlando di quello specifico caso. (Bryant ,1990).
Secondo i dati forniti da Mehrotra et al. (2011) nel 2004 il numero di adozioni speciali era 332, contro 998 adozioni ordinarie, mentre il numero totale di adozioni di minori era 1.330 contro 82.175 adozioni di adulti. È rilevante come il numero di adozioni di adulti rispetto ai minori fosse maggiore già nel 1955 per poi aumentare progressivamente (l’ultimo dato disponibile è il 2004). L’adozione di persone adulte non è così diffusa negli altri paesi industrializzati, sia per quanto riguarda il resto dell’Asia che i paesi occidentali. Si può dire quindi che questo tipo di adozione sia tipicamente giapponese (Bryant 1990 ma anche Kitsue 1964).
L’adozione in Giappone è di fatto importante come il matrimonio. Secondo Bryant (1990) l’adozione in Giappone ha quattro caratteristiche principali: la prima è che non è un limite alla differenza di età tra adottato e adottante. L’unica condizione è che chi adotta sia maggiorenne e che la persona adottata sia più giovane, anche solo di un giorno, della persona che adotta. Secondo, l’adozione tra adulti avviene tramite un contratto privato tra individui, senza che sia necessaria una supervisione giuridica, analogamente a quello che succede con il matrimonio, in cui le persone che decidono di sposarsi non hanno bisogno dell’approvazione di un’autorità giuridica per sposarsi. La terza caratteristica è che essendo una pratica molto antica, la sua utilità è riconosciuta e quindi le persone sono più inclini ad usarla rispetto ad altre soluzioni. L’ultimo aspetto è che l’adozione permette la creazione di nuovi legami familiari. Questo aspetto è particolarmente importante per le imprese familiari, perché permette nuove alleanze commerciali, la selezione di un erede adeguato, o semplicemente permette la sopravvivenza della famiglia in caso di mancanza di erede (o, un tempo, di un erede maschio). Per la società giapponese non c’è nulla di male ad adottare una persona per fini economici o per obiettivi puramente materiali: in questo senso, si può dire che l’adozione sia spesso portata avanti con un’etica mercantilista. E’ molto importante ricordare che la persona adottata, sia che si tratti di un bambino o di un adulto, diventa pienamente parte della nuova famiglia, tanto che agli occhi dei giapponesi la linea familiare non viene effettivamente interrotta.
Come abbiamo visto, l’adozione è particolarmente importante per le famiglie che gestiscono un’impresa familiare, in quanto permette al capofamiglia sia di avere un erede nella mancanza di un figlio biologico, sia di scegliere un erede migliore nel caso il figlio biologico non fosse in grado, o non fosse ritenuto degno, di ereditare l’azienda. Un esempio è quello dell’azienda Suzuki, è famosa per essere guidata da figli adottati. L’attuale amministratore delegato Suzuki Osamu è infatti il quarto figlio di fila ad essere stato adottato per gestire l’azienda. Un proverbio giapponese recitato dalle famiglie imprenditrici alla nascita di una figlia femmina recita: “non si possono scegliere i propri figli, ma si possono scegliere i propri generi (sons-in-law)”, che qui viene ad avere anche la valenza di figlio adottivo (Mehrotra et al. 2011). Questo spiega anche come mai in Giappone, nonostante la donna ricoprisse un ruolo inferiore rispetto al marito, la nascita di una figlia femmina non fosse vista in modo negativo, almeno in alcuni ceti sociali.
Nel paragrafo seguente esamineremo gli effetti dell’adozione sulle imprese familiari in termini di struttura, performance e durata.
5. Performance delle imprese familiari e ruolo dell’adozione
Sono tre le principali ricerche di tipo quantitativo che studiano la differenza tra imprese familiari e non familiari in termini di performance, sopravvivenza e produttività.
Morikawa Masayuki (2013) ha analizzato la relazione che intercorre tra la produttività e il tipo di proprietà dell’azienda. I dati che ha usato sono di tipo longitudinale sulle aziende giapponesi, distinguendo anche tra imprese private e pubbliche. I risultati delle analisi mostrano che il tasso di crescita della produttività delle imprese familiari è più lento del 2% rispetto alle imprese non a conduzione familiare. Nonostante questo, la probabilità di sopravvivenza delle imprese familiari per i successivi sei anni è 5-10% maggiore rispetto alle imprese non familiari: questo si spiega col fatto che la sopravvivenza dell’impresa familiare è l’obiettivo primario del management delle imprese familiari. La conclusione dell’autore è che le imprese familiari, diano priorità alla sopravvivenza dell’azienda e che la differenza in produttività si può spiegare con il fatto che molte delle imprese familiari giapponesi sono attive nel settore dei servizi, tradizionalmente caratterizzato da una bassa produttività. E’ importante notare che l’importanza della sopravvivenza delle imprese familiari era uno dei valori fondanti degli ie di tipo mercantile: questo dimostra come la base di valori delle moderne imprese famigliari conservi ancora un nocciolo tradizionale.
Saito Takuji (2008) ha studiato la performance delle imprese familiari rispetto a quelle non familiari, definendo le prime come imprese dove il fondatore o un suo discendente sia presidente o presieda il consiglio di amministrazione e/o dove la famiglia fondatrice sia lo shareoholder di maggioranza. Saito ha diviso le imprese familiari a seconda del fatto che la famiglia sia nella proprietà o nel management. Per stabilire il grado di proprietà della famiglia, si è considerata la percentuale di share posseduta dalla famiglia fondante considerata come gruppo, mentre per management familiare si intende un’azienda dove il fondatore o un suo discendente è il presidente o presieda il consiglio di amministrazione. Dall’analisi è emerso che le imprese familiari hanno performance leggermente migliori delle imprese non familiari, ma il risultato è molto condizionato dalla presenza attiva del fondatore nell’azienda. Dopo che il fondatore si ritira, i risultati diventano più incerti: la performance delle imprese familiari possedute e gestite dai discendenti del fondatore è inferiore a quella delle imprese non familiari, ma il risultato si inverte se si considerano le imprese familiari solo possedute o solo gestiste dai discendenti. L’autore spiega questo risultato considerando che il fondatore normalmente ha grandi capacità di gestione e organizzative, mentre i discendenti possono trovarsi in difficoltà nel gestire il conflitto tra grandi e piccoli shareholders. Un’altra possibile spiegazione è che i fondatori non lasciano il management dell’azienda se questa ha buone performance, o, visto diversamente, membri esterni alla famiglia non rilevano imprese familiari dalle performance poco soddisfacenti. Un risultato interessante di questo studio è che gli investitori considerano più sicure le imprese ereditate da discendenti di sangue rispetto ai discendenti non consanguinei.
Lo studio di Mehrotra et al. (2011) è finora il solo che analizza specificamente l’impatto dell’adozione sulla performance delle imprese familiari. Lo studio considera l’adozione come una particolare politica di successione: l’adozione espande la platea di possibili successori, aumentando la probabilità di avere eredi brillanti. In questo modo la famiglia può sostituire discendenti ritenuti poco talentuosi con persone dotate di maggiori competenze. Un effetto collaterale della possibilità dell’adozione è che gli eredi di sangue, nel timore di venire esclusi dalla successione, aumentano il loro impegno per diventare degni successori. Come spiega Befu (1962), un fattore critico nella continuazione nel tempo delle imprese familiari è il mantenimento della professione in cui si è specializzata la famiglia. Per questo nella selezione degli eredi si dà molta importanza all’abilità dei candidati di portare avanti il business della casa, per questo gli eredi di sangue sono così preoccupati della successione.
I dati usati da Mehrotra et al. (2011) riguardano 1433 imprese quotate in tutte le borse (Tokyo, Nagoya, Fukuoka e Osaka) e considerano il periodo che va dal 1962 al 2000. Lo studio rivela che le imprese guidate da eredi non consanguinei hanno una performance migliore rispetto alle imprese guidate da eredi consanguinei: secondo gli autori questo risultato si spiega con il fatto che gli eredi non consanguinei rimpiazzano di fatto eredi consanguinei meno talentuosi. L’uso dell’adozione e dei matrimoni combinati inoltre elimina il trade-off tipico delle aziende tra l’affidare l’azienda a un manager capace ma esterno alla famiglia e la volontà di mantenere il controllo familiare sull’impresa. Per quanto riguarda il management, i risultati mostrano che gli eredi di sangue sono migliori rispetto a manager esterni nella gestione dell’azienda: questo può essere interpretato come il sopracitato effetto collaterale dell’adozione, che spinge gli eredi di sangue a migliorare la propria formazione e le proprie competenze. Un altro aspetto da non sottovalutare è che la stessa esistenza della possibilità di diventare “eredi non consanguinei” spinge molti manager di talento a voler lavorare per imprese familiari, aumentando il capitale umano dell’azienda stessa. E’ da notare come questo sia in netto contrasto con il resto dei paesi industrializzati, dove si è visto che le imprese con un controllo familiare di tipo ereditario hanno una performance peggiore di quelle invece amministrate da manager esterni.
Questi studi mostrano come i valori tradizionali associati all’ie e in particolare l’adozione abbiano effetti concreti sulla performance delle aziende familiari in Giappone, effetti difficilmente spiegabili altrimenti.
Conclusioni
L’analisi della struttura familiare tradizionale giapponese è un importante elemento per spiegare la sopravvivenza delle imprese familiari in Giappone. L’ie, in quanto entità trasversale nella storia del Giappone ha resistito alle trasformazioni della Restaurazione Meiji all’influsso della cultura occidentale che a più riprese è arrivata in Giappone, adattandosi di volta in volta ai cambiamenti in atto. I valori fondanti dell’ie, se in passato sono stati la chiave per la formazione delle industrie, sono sopravvissuti nel tempo: in particolare l’importanza data alla sopravvivenza della famiglia nel tempo, possono essere riscontrati anche nelle imprese familiari contemporanee e ne spiegano le scelte manageriali e i risultati in termini di performance. La continuazione della “ininterrotta linea di successione” (Befu, 1962), motivo di orgoglio per le famiglie giapponesi, nelle imprese familiari si declina nell’attenzione alla sopravvivenza del business familiare, con il conseguente investimento in capitale umano da parte della famiglia.
Nonostante questo, il futuro delle imprese familiari sembra incerto. Anche se, come riposta Michael Cusumano, chiudere la propria impresa o venderla è ancora considerato segno di fallimento e vergogna, Fujiwara Mariko, sociologa, riporta che rispetto al passato molte più famiglie sono disposte ad accettare la fine della linea familiare. E’ importante sottolineare che la famiglia in Giappone sta cambiando rapidamente: il lost decade ha messo sempre più in crisi la famiglia-tipo composta dal marito che lavora e la moglie casalinga, senza contare il connesso problema del calo demografico che rende il Giappone uno dei paesi più “anziani” al mondo. Questo è in linea con molti paesi industrializzati, che faticano a implementare politiche che permettano alle donne di conciliare maternità e lavoro, spesso costringendole a una scelta tra le due. Il calo demografico sarà probabilmente una fonte di problema per le imprese familiari, in quanto il ridotto numero di persone sul mercato del lavoro riduce la platea di possibili eredi per le famiglie titolari di un’impresa. Sakamaki Naruhiko di Nomura stima che 40.000 aziende ogni anno avranno problemi a trovare un nuovo erede almeno fino al 2040 (Lewis, 2017). Alcune piccole medie imprese stanno già avendo difficoltà a rimanere in affari proprio per la mancanza di successori. In un sondaggio del governo del 2017 sulle ragioni di chiusura volontaria delle aziende, al primo posto con il 37% c’erano le difficoltà economiche, ma al secondo posto, il 33% degli intervistati ha indicato come motivo la mancanza di un successore (Lewis, 2017). Anche se ci sono eredi in linea di successione, può accadere che questi non vogliano o non possano ereditare l’azienda di famiglia: spesso hanno intrapreso altre carriere, si sono trasferiti altrove, o non vogliono accollarsi l’oneroso dispendio fiscale derivante da una cessione di proprietà. Nelle aree rurali spesso i giovani non vedono il vantaggio di investire tempo, denaro e parte della loro carriera nella continuazione di una piccola impresa familiare.
La visione tradizionale della famiglia deve inoltre confrontarsi con i cambiamenti della società e le aspirazioni di gruppi rimasti storicamente in un ruolo marginale. Le donne in particolare sempre più spesso cercano di emanciparsi dal ruolo di semplici guardiane della casa o madri, cercando rilevanza nell’ambito pubblico e lavorativo. La struttura della famiglia tradizionale si applica oggi a sempre meno famiglie, ma lungi da essere segno di decadenza, questo può essere una sfida non solo per le imprese familiari, ma per l’intera società giapponese.
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1 Dottoranda in Methods and Models for Economic Decisions, Università dell’ Insubria, Varese.
2 CampdenFB Numero 68, 28 marzo 2017.
3 “The Japanese household is a corporation that ideally has perpetual existence. Once established, a household line should not be allowed to lapse”. (Plath 1964; 301).
4 “It’s not the business I started – I am operating the business my ancestors started. If I didn’t take it over, [the legacy] would have ended”. (Lufkin, 2000).
5 È bene precisare che esistevano anche dei fuori casta, i burakumin o hinin. I burakumin svolgevano mansion considerate estremamente impure dallo shintoismo, come macellare la carne, conciare la pelle o preparare funerali. Gli hinin invece erano attori, musicisti girovaghi o criminali.
6 Nelle cronache del periodo Edo è frequente imbattersi in storie di giovani mogli morte suicide proprio per le insopportabili condizioni di vita a cui erano costrette.
7 Il marito può prendere il cognome della moglie solo quando quest’ultima proveniva da una classe sociale superiore, evento che accadeva e accade piuttosto di rado.
8 Una delle caratteristiche del sistema politico giapponese è la separazione tra potere formale e attuale. Nel periodo Edo, per esempio, lo shogun deteneva il potere sostanziale, ma il detentore del potere formale rimaneva sempre l’imperatore.
9 Questo atteggiamento continua in una certa misura ancora oggi. Hidemasa (1966) riporta una citazione di Lockwood che nota come i membri degli zaibatsu, che godettero di un’irripetuta concentrazione di ricchezza anche grazie ai legami con la politica, non erano soliti sperperare le proprie ricchezze nel lusso sfrenato o in spese improduttive. I valori tradizionali del mantenimento del clan familiare nel tempo, la disciplina dei membri e l’importanza della successione fecero sì che le ricchezze venissero reinvestite in attività redditizie.
10 Un antico detto giapponese recita “finchè avrai tre go (circa mezzo chilo) di riso, non diventare un marito adottato”. (Befu,1962)