Prontuario del perfetto kaishaku

di Ornella Civardi


seppuku


«Quando si funge da kaishaku, se si usa la katana ci si dovrà posizionare a un paio di spanne di distanza, con il piede destro avanzato, mentre per lo wakizashi [la spada corta] basterà una distanza di una spanna e mezzo, e i piedi saranno paralleli. Occorrerà colpire con un movimento dall’alto verso il basso, ruotando la lama finché il palmo che impugna la spada non sia rivolto verso l’alto».1
Il termine kaishaku, che nello Hagakure ricorre diverse decine di volte, designa un particolare gesto rituale – o forse bisognerebbe dire una mansione, un compito – e per estensione anche chi sia deputato a eseguirlo, sebbene in questo caso si dovrebbe più propriamente parlare di kaishakunin. In ogni caso, non c’è dubbio che il compito in questione, a cui Tsunetomo dedica un’attenzione quasi ossessiva, sia dei più delicati. Sia perché si colloca in un momento altamente solenne qual è il seppuku – il suicidio rituale per sventramento, sia perché il morituro ha personalmente provveduto a richiedere con debito anticipo che a svolgerlo sia quella determinata persona, investendola dunque di una considerazione, una stima, una fiducia che per nulla al mondo possono essere tradite.
Ora, come si sa, il seppuku, pur dovendo essere derubricato come suicidio, non riveste affatto il carattere di gesto impulsivo, scatenato da disperazione o depressione, che si riscontra di norma in chi decide di sparire dal mondo. Al contrario, rappresenta il momento della massima affermazione del valore e dell’onore, il culmine di una vita ben spesa o il riscatto di un’esistenza poco lusinghiera, non l’annullamento ma il trionfo del Sé. Proprio per sottolinearne il significato, e il carattere di azione deliberata e ponderata, tutta la procedura di esecuzione è codificata secondo un rituale minuzioso. Dall’ultima coppa di sake alla poesia di commiato da lasciare a futura memoria, dalla veste bianca – segno di purezza – alla tecnica di sventramento, che prevede lo squarcio dell’addome da sinistra verso destra – e non viceversa –, ogni minimo dettaglio è regolato dalla tradizione con il rigore che si riserva alla liturgia religiosa.
L’intervento del kaishaku s’inserisce in questo protocollo nella fase finale, quando l’aspirante suicida ha ormai dato prova della propria fermezza trafiggendosi il ventre in profondità, e ancora trascinando la lama fino in fondo – fino all’estrema destra e poi in alto – con un gesto che ha dovuto compiere vincendo il dolore e l’orrore. È allora, nel momento dell’agonia, quando il morente si ripiega su se stesso e non è più in grado di contenere i propri visceri, che subentra la figura pietosa e al tempo stesso implacabile del secondo officiante, il kaishaku appunto, che con un colpo di spada netto e preciso lo decapita, ponendo fine al travaglio e impedendo insieme che le manifestazioni inevitabilmente scomposte della sofferenza fisica incrinino la solennità della cerimonia e magari anche la dignità del soggetto.
Spulciando fra le pagine dello Hagakure si può mettere insieme un autentico “prontuario del perfetto kaishaku”, a metà fra il galateo e il manuale del boia, con le dritte utili ad affrontare ogni singola fase del compito, i suggerimenti per aggirare le insidie che comporta e la casistica relativa.
Nel passo del Libro X che abbiamo riportato sono impartite le istruzioni dettagliate su come e dove posizionarsi (disposizione dei piedi, distanze, tecnica) per cercare di rendere il colpo unico e infallibile. Infallibile, perché accanirsi ripetutamente sulla nuca dell’agonizzante senza azzeccare il sottile interstizio fra le prime vertebre cervicali che garantisce la morte istantanea, più che un caritatevole soccorso rappresenterebbe una tortura crudele, e soprattutto spoglierebbe di ogni gravità la situazione rendendola tragicamente grottesca. (Fu quello che accadde nel 1970 durante il famoso seppuku di Mishima, e si può star certi che se lo scrittore avesse anche solo lontanamente immaginato l’imperizia e la mancanza di sangue freddo del giovane kaishaku che si era scelto, avrebbe riconsiderato l’idea di tutto il copione che aveva così minuziosamente preparato.)2
Come in ogni impresa di questo mondo, si puntualizza sempre nel Libro X, anche nell’esecuzione del kaishaku, «la regola è essere veloci all’inizio e alla fine, calmi nel mezzo». La velocità è imposta dalla situazione, ma non deve andare a scapito della precisione.
A proposito di precisione, ci fu un’epoca in cui un buon kaishakunin poteva raggiungere vertici di virtuosismo quasi inimmaginabili. Per evitare che la testa, sotto il colpo, schizzasse via, si affermò «l’uso di lasciare intatto un lembo di pelle del collo, in modo che il capo non andasse a cadere davanti agli ispettori» (Libro VIII, passo 82). Era una misura di rispetto per le autorità che dovevano accertare l’avvenuto seppuku, ma anche una delicatezza nei confronti del suicida, la cui morte avrebbe in tal modo evitato di trasformarsi in un macabro siparietto.
A quanto afferma lo Hagakure, però, ai tempi di Tsunetomo la preferenza generale si orientava sulla recisione completa. Lo spiega nello stesso paragrafo un non meglio identificato samurai, autore di una buona cinquantina di decapitazioni: «Certe volte il collo oppone la stessa resistenza di un torace. [… Perciò] per evitare di fare disastri è bene ogni volta tirare il fendente come se si intendesse andare a colpire il suolo». Insomma, meglio andar giù con decisione e staccare di netto la testa, piuttosto che rischiare di rimanere incastrati a metà.
Tuttora, in alcune scuole dello iaidō, l’arte marziale che insegna a sguainare la spada, esiste un kata chiamato kaishaku, forse non del tutto fedele alla tradizione, ma da cui si può grosso modo desumere quale fosse il procedimento. Il kaishakunin, in piedi alla sinistra di chi fa seppuku, si prepara sguainando lentamente la spada e portandola dietro la testa in orizzontale (o tenendola verticale, secondo le scuole). Quando ritiene sia giunto il momento, afferra l’elsa con entrambe le mani in modo da aumentare la forza e abbatte la lama sulla parte posteriore del collo con un gesto ampio e fluido per garantire la migliore penetrazione. A quel punto, se l’intenzione è di lasciare intatta una porzione di tessuto, la mano dovrà diventare estremamente precisa e concludere ritraendo la spada con un movimento detto dakikubi (avvolgimento del collo). Compiuta l’operazione, sempre con lentezza rituale, il kaishakunin rinfodera la spada, si inginocchia per un attimo vicino al defunto, poi si alza e s’inchina, rendendo l’ultimo saluto.
Ma la competenza richiesta al kaishaku va ben oltre questo pur encomiabile esercizio di destrezza. In una simile circostanza, si capisce come intralci e contrattempi siano all’ordine del giorno, e fa parte dei suoi compiti trovare su due piedi l’escamotage per uscire dall’impasse. L’aspirante suicida non sempre è un modello di impavidità. Ishii Jinzaemon, condannato al seppuku3 per aver organizzato un giro di scommesse clandestine, confessa all’amico Kaheiji timori che devono essere stati abbastanza comuni: «Sai, tutti mi credono un mostro di coraggio, ma invece devo essere un vero coniglio a giudicare da come sto in questo momento. Se dovessi agitarmi in modo poco dignitoso nell’agonia, spero che mi diano in fretta il colpo di grazia, almeno non perdo la faccia» (Libro VIII, passo 86). In realtà, pare che quando venne il momento, Jinzaemon si sia comportato in modo ineccepibile, ma non sempre andava così. E il kaishaku era lì per garantire non solo di una buona morte (atroce, ma il meno atroce possibile), bensì del buon nome che quella morte doveva lasciare, dell’onore che doveva mettere in luce.
Edayoshi Yohei, kaishaku scafato, se la vide brutta una volta che aveva accettato di assistere un certo Kanahara. «Ora, accadde che conficcata la spada nel ventre, questo Kanahara si bloccasse e non riuscisse ad allargare lo squarcio. Yohei allora gli si accostò, gridò ehi! e gli pestò un piede. L’urto riscosse il tizio, che riuscì a portare a compimento il gesto» (Libro VIII, passo 81). Mirabile presenza di spirito!
Più difficile fu ridurre a miti consigli Tomoda Shōzaemon, giovane paggio di Mitsushige condannato per furto, che giunto sul luogo del seppuku «divenne recalcitrante e prese a divincolarsi. Fu necessario bloccarlo e distenderlo a forza per poterlo infine decapitare» (Libro VII, passo 15). In generale, il consiglio di Noda Kizaemon, opportunamente esposto nel passo successivo, è il seguente: «Se il condannato al momento del seppuku perde il controllo e comincia a contorcersi, è meglio che il kaishaku non intervenga subito, o quasi sicuramente fallirà il colpo combinando un disastro. In questi casi è bene attendere un poco, quindi chiamare a raccolta tutte le proprie forze, assumere una salda postura e al momento giusto sferrare il colpo».
Compito problematico e ingrato quello del kaishaku, che «se agisce al meglio, non ne ricava comunque alcuna gloria, e se per disgrazia sbaglia, si copre d’infamia per il resto dei suoi giorni» (Libro VII, passo 24). Che fare allora se ti viene richiesta la spinosa prestazione? Tsunetomo su questo non ha dubbi, bisogna farsi coraggio e accettare. Nel passo 36 del Libro I, in cui lamenta il decadimento dei tempi e la penuria di “uomini veri”, cita a riprova della sua tesi anche la scarsa disponibilità dei contemporanei a prestarsi come kaishaku. «Di questi tempi,» dice con disprezzo «è considerato uomo avveduto e di alta spiritualità chi declina la richiesta».
In epoche meno corrotte, i figli dei samurai cominciavano fin da ragazzini a prepararsi a quel sacro dovere. E se la pace non permetteva di beneficiare dell’addestramento in battaglia, si arrangiavano come potevano con fasci di bambù o stuoie arrotolate, i più fortunati con i condannati a morte. «Yamamoto Kichizaemon [fratello maggiore di Tsunetomo], per volere del padre Jin’uemon, a cinque anni dovette uccidere un cane e a quindici un condannato a morte. A quell’epoca un ragazzo di quattordici o quindici anni non poteva sottrarsi a quell’esperienza. Da giovane, anche Katsushige [signore del dominio di Saga], per ordine del padre Naoshige, dovette esercitarsi a decapitare condannati. Pare che una volta gliene abbiano fatti decapitare dieci uno in fila all’altro» dice il passo 14 del Libro VII, e commenta: «Si dice che sia possibile farne a meno, che uccidere un condannato non sia poi quella grande impresa, oppure che sia un crimine, una macchia all’onore, ma sono tutte scuse. La verità è che gli uomini oggi mancano di coraggio, pensano solo a farsi belli e limarsi le unghie».
Il libro di Tsunetomo coglie, come forse nessun altro testo, la dimensione tragica del samurai del periodo Edo, stretto fra l’urgenza di certificare il proprio valore con la spada per legittimare l’appartenenza di casta e l’inerzia forzata della pace Tokugawa, che ha spazzato via tutti i nemici effettivi su cui provarsi. Un eroe obsoleto, lasciato indietro dalla storia, combattuto fra gli imperativi di una legge non scritta – la legge dei padri – che lo obbliga al dovere dell’onore e della vendetta, e gli editti “moderni” dello shogunato che gli impediscono quegli stessi gesti d’onore e di vendetta per una razionale, fredda, estranea ragion di stato.
Il seppuku resta lo strumento estremo concesso al samurai per risolvere la contraddizione inerente alla sua stessa sopravvivenza, il rito catartico che scioglie il problema di coscienza senza minare il diritto dello Stato. Di questo rito il kaishaku è il sacerdote supremo, l’officiante a cui è affidata la responsabilità che tutta la cerimonia si svolga e si concluda nella solennità che le compete. In modo da scongiurare il rischio, serio e sempre incombente, che un malaugurato errore, una imperdonabile goffaggine, un cenno di paura o una carenza di autocontrollo possano ridurre quello che deve essere il momento di suggello di una intera casta e del suo sistema di pensiero in una grottesca e degradante parodia.

1 Yamamoto Tsunetomo, Hagakure (a cura di O. Civardi), Chermignon, Nuinui, 2022, Libro X, passo 134.
2 Morita Masakatsu, che all’epoca del seppuku di Mishima aveva venticinque anni, si era arruolato solo due anni prima nel Tate no kai, il piccolo esercito privato dello scrittore, e in breve era divenuto parte della cerchia ristretta dei discepoli a lui più vicini. Prediletto di Mishima, devotissimo, fu scelto come kaishaku, ma per ben tre volte sbagliò il colpo, finché non intervenne un altro militante del Tate no kai, Koga Hiroyasu, che pose fine all’agonia. Morita fece seppuku a sua volta, e fu sempre Koga a fare da kaishaku anche a lui.
3 Non sempre il seppuku rappresentava una scelta deliberata per lavare una colpa o seguire nella morte il proprio signore (oibara). Qualche volta era una forma di esecuzione comminata per punire un crimine (tsumebara). Se il condannato apparteneva alla classe dei samurai, gli si concedeva almeno l’apparenza della morte volontaria, più onorevole dell’impiccagione, destinata ai ceti inferiori.

 

Il renshi e la poesia contemporanea 




Da dove cadesti?

Da dove cadesti?

Da dove cadesti?

Da dove cadesti?

Davvero cadesti?

Davvero, davvero cadesti?

Da dove cadesti?

Davvero cadesti

Dalla scogliera col boschetto

Di lamponi?

Così riporta una delle strofe finali, scritte da Itō Hiromi (Giappone, 1955), all’interno del Kumamoto renshi, opera composta nel marzo del 2010 da Tanikawa Shuntarō, Yotsumoto Yasuhiro, Kaku Wakoko, il poeta americano Jerome Rothenberg e Itō Hiromi.

Il Kumamoto renshi, scritto durante tre giorni di ritiro di questi poeti a Kumamoto (da qui il nome), fa parte del genere poetico del renshi, ovvero la poesia collaborativa a catena (o linked poetry).

Come spiega il traduttore e poeta americano che si è occupato della resa di quest’opera, Jeffrey Angles, tale forma deriva dal renga, genere molto diffuso

intorno al XV secolo in Giappone. I poeti, infatti, collaboravano nella sua stesura seguendo uno schema metrico di unità, simile a: 5-7 e 5-7-7. Alternandosi, sviluppavano temi concatenati, rifacendosi ai versi delle strofe precedenti per proseguire la poesia, direzionandola gradualmente verso nuove tematiche.

La nascita del renshi deriva, però, dall’iniziativa del poeta Octavio Paz, nel 1969, di comporre una poesia collaborativa sulla falsa riga del renga. Egli invitò a Parigi poeti quali Jacques Roubaud e Edoardo Sanguineti, per la stesura di una serie di frammenti poetici, che avrebbero poi formato una catena di sonetti. Quando tale opera fu tradotta in lingua giapponese, essa collaborò alla nascita definitiva del genere renshi.

Per quanto riguarda i versi e la poetica di Itō nel Kumamoto renshi, la poetessa effettua una scelta metapoetica e intertestuale, citando i versi di altri poeti ed inserendoli nelle sue strofe. Afferma, infatti, di voler cercare le voci di altri per esprimere la propria, e tale mossa è la prova di un ulteriore livello collaborativo all’interno di un genere quale il renshi.

La vasta creatività di Itō, tuttavia, non si limita a questo genere, ma sfocia in svariate opere poetiche e traduttive quali Oume (Prugne verdi 1982), Watashi wa Anjuhimeko de aru (Sono Anjyuhimeko, 1993), e traduzioni di storie buddiste e di romanzi del diciannovesimo secolo, in giapponese.

Come ha scritto Maria Teresa Orsi, Itō Hiromi «affrontava senza inibizioni il mondo della biologia femminile [...] con una disinvoltura che nasceva, oltre che dalla propria ispirazione poetica, anche dal solido sostegno offerto dalle teorie psicanaliste come Julia Krsiteva e Melanie Klein.»

In opere come Watashi wa Anjuhimeko de aru, invece, si ritrova l’interesse dell’autrice per il buddhismo e per i sekkyōbushi, sermoni salmodiati accompagnati da strumenti musicali. Quest’ultimo componimento è costituito da un lungo poema in prosa, ovvero un rimaneggiamento di una registrazione orale di una shamana, risalente al 1921.

Trattando il renshi, tuttavia, non si può non menzionare il nome di uno dei poeti che, più di tutti, incoraggiò lo sviluppo di questo genere in Giappone. Ōoka Makoto.

Ōoka Makoto (1931 - 2017) è stato un celeberrimo poeta e critico letterario del Giappone contemporaneo. Nato nel 1931, lo stesso anno di Tanikawa Shuntarō, Ōoka pubblica nel 1956 il suo primo poema, Kioku to genzai (Memoria e il presente), ottenendo un successo istantaneo.

La figura di Ōoka è particolarmente nota per il suo contributo nella nascita e nello sviluppo della poesia renshi. Come già menzionato, questo genere nasce con l’iniziativa di Octavio Paz di scrivere secondo il modello del renga.

Ōoka, l’hanno successivo, imiterà questa scelta insieme con gli altri membri della rivista Kai.

Stringendo, grazie a questi lavori, stretti rapporti con Tanikawa Shuntarō, forma con quest’ultimo un’intensa collaborazione dal punto di vista della critica letteraria. Un esempio di ciò sarà la stesura del saggio Gendaishi nyūmon (Introduzione alla poesia moderna) del 1985. 

Orsi descrive così tale collaborazione:

il sodalizio [di Tanikawa] con l’altro maestro indiscusso della seconda metà del Novecento, Ōoka Makoto, si sarebbe inoltre tradotto, negli anni Settanta, nella pubblicazione di alcuni testi sulla poesia contemporanea, [...] manifesto poetico degli autori.

In conclusione, a titolo esemplificativo, si riporta qui una poesia di Ōoka Makoto, tratta dall’antologia Poeti giapponesi e tradotta da Alessandro Clementi degli Albizi, dal titolo Il canto della fiamma.

 

Il canto della fiamma

 

Chi mi tocca

solleva grida di terrore

ma io non lo so

se sono calda o fredda

perché non sono mai ferma nello stesso posto

e quello che era un attimo prima già non c’è più

per me bruciare è il continuo ripetersi dell’addio

 

combatto contro l’oscurità

ma è solo nell’oscurità

che potrò fare ritorno

 

ciò che di me teme l’essere umano

è che per una ragione che io stesso ignoro

adoro avvicinarmi agli alberi alla carta alla sua carne

 

sfiorarli col mio corpo accarezzarli inghiottirli per intero

e sono io stessa poi

 

a morire sulle loro ceneri

perché non tradisco il principio di non possedere

sono le grida sollevate da chi mi tocca

 

a rivelarmi

quanto l’amicizia che gli porto

sia il cuore del loro stupore.

 



 di Irene Canuto

 

 Le poesie di Shuntarō Tanikawa




Nato a Tokyo nel 1931, Shuntarō Tanikawa è uno dei più apprezzati poeti e scrittori giapponesi. Autore di opere quali “Una solitudine di due miliardi di anni luce” o “Floating the River in Melancholy”, e celebre per la sua traduzione in giapponese di Peanuts di Charles Schulz, egli ha contribuito alla stesura di una canzone presente nel film “Il castello Errante di Howl”. Tanikawa è inoltre dedito anche alla poesia renshi, ovvero la moderna “linked poetry”(poesia collaborativa) il cui pioniere fu Ooka Makoto.
Le raccolte di poesie “scelte” di questo autore sono molteplici. Qui di seguito si presentano due componimenti tratti dal primo volume 谷川俊太郎詩選集 del 2005, ovvero la raccolta edita in Giappone di poesie scelte di Shuntarō Tanikawa, la cui traduzione italiana è ancora inedita. Le due poesie, intitolate rispettivamente “A una donna” e “Il bacio”, trattano entrambe il tema amoroso e la descrizione dei sentimenti provati dall’autore nei confronti di una donna.
Se il primo componimento, che sfiora la dimensione onirica attraverso la ripetizione anaforica del verbo sognare lungo tutta la poesia, pare caratterizzato da un forte sentimento di amore nei confronti di una donna, la seconda ne descrive invece il presunto tradimento. Egli afferma infatti come la donna sembri portar con sé l’odore di un altro uomo.
Nel concludersi, anche “Il bacio” tocca il tema dell’onirico, rafforzando forse il legame tra le due poesie. Attraverso un’immagine di forte impatto, infatti, la notte viene associata per similitudine a una grande prateria nella quale l’uomo dovrà correre per un tempo indefinito.
Si riportano di seguito il testo originale e le rispettive traduzioni dei componimenti.


女に


陽にやけたおまえの裸の背に
俺は夢見る
疑わないおまえの大きなうるんだ眼に
俺は夢見る
おまえの口ずさむ小さな唄に
おまえの寝顔に
俺は夢見る
古い村を
大きな昔ながらの家と庭とを
その庭に根をおろす年老いた楡の木を
その上の変らない青空を
俺は夢見る
俺の元気一杯な息子を
おまえの幼なすぎるまごたちを
俺たちの死を
俺は夢見る
明日のささやかな晩餐を
ひとびとの沢山の生を
むなしく夢見る


A una donna


Davanti alla tua schiena nuda, bruciata dal sole
Io sogno
Davanti ai tuoi grandi occhi velati senza domande
Io sogno
Al motivetto che canticchi piano
Nel tuo volto addormentato
Io sogno
Sogno
Un vecchio villaggio
Una grande casa tradizionale e un giardino
Un vecchio olmo che in quel giardino ha messo radici
E lassù un cielo sempre azzurro
Sogno
Mio figlio pieno di energia
I tuoi nipoti troppo giovani
La nostra morte
Io sogno invano
La magra cena di domani
Le tante vite della gente

接吻


彼女は他の男の匂いえをさせて帰ってきた
そこで僕は彼女に接吻出来なかった
それから二人は太陽の熱さの残っている
ふとんに入った
その日は一日いい天気だった
それでも僕は接吻出来なかった
彼女は自分の胸をぴったり僕の胸に押しつけた
それでも僕は出来なかった
彼女が別の女のように思えた
ふたりの会う前のようだった
まだ僕が彼女のあそこを知らないで
日曜日にはひとりで釣りに出かけた頃のようだった
あの小さな沼のそばで冬の薄陽を眺め
誰かに会うのを待っていた頃のようだった

僕はおそろしかった
それでも僕は出来なかった
そうしていつか眠りこんだ
大きな草原のような夜だ
いつまで駈けてもいつまで駈けても


Il bacio


Lei tornò con addosso l’odore di un altro uomo
Perciò non riuscii baciarla
Poi ci infilammo nel futon
Ancora caldo per il sole
Tutto il giorno ci fu bel tempo
Ma ancora non riuscii a baciarla
Lei premette forte il petto contro il mio
Ma ancora non ci riuscii
Mi sembrava un’altra donna
Come prima che ci incontrassimo
Quando ancora non la conoscevo tutta
Come quando uscivo da solo per andare a pesca la
domenica
E guardavo la sottile luce del sole invernale accanto
al piccolo stagno
Come quando aspettavo di incontrare qualcuno
Ero spaventato
Ma ancora non ci riuscivo
Così a un certo punto mi addormentai
In questa notte ch’è una grande prateria
Non importa quanto correrò, non importa quanto
Correrò

Traduzone di Irene Canuto

 

Le lettere di Bashō. Bellezza della semplicità

di Ekuni Shigeru (poeta, 1934-1997)*

Traduzione di Irene Canuto



Da circa tre anni, dal momento che mi sono immerso nel mondo degli haiku, ogni giorno mi vengono spedite da ogni parte delle raccolte poetiche.

Tutte le volte che ricevo una lettera, scrivo subito una risposta. Non mi è difficile, è ormai diventata un’abitudine. Spesso passo un’intera mezza giornata a scrivere le risposte a mano sulle cartoline. Uso modelli già fatti e modifico il testo in base a quello che voglio esprimere. C’è chi dice che in una lettera è giusto scrivere quello che si pensa liberamente, senza convenzioni, ma io non la vedo così. Se scrivo liberamente, senza regole, cado in confusione. In verità, mi è difficile. Il modo più semplice per scrivere una lettera è utilizzare un modello di quelli proposti nelle “raccolte di esempi di lettere”. Questi modelli, consolidati nel tempo, sono vere perle di sapienza. Penso si possano considerare lo “scheletro” di una lettera.

Allo stesso tempo, neanche va bene imitare pedissequamente il modello. Ne uscirebbe una lettera troppo sbrigativa. Occorre apportare dei cambiamenti all’interno del modello, e ampliare il testo cercando di personalizzarlo.

Le lettere che scrivo sono fatte in questo modo. Mi è molto comodo. Basta usare un po’ la testa, applicarsi e ne escono ottimi risultati.

Il fatto è che, anch’io come tutti, nello scrivere ho la tendenza a voler dire questo e quest’altro, e finisco per scrivere troppo. Anche se so bene che il maggior pregio di una lettera è la concisione.

***

Non amo molto Matsuo Bashō. Ma mi piace il Bashō scrittore di lettere.

Sebbene non m’intenda troppo di calligrafia, ho l’impressione che i suoi scritti letterari, per quanto eleganti, non siano del tutto impeccabili. Le lettere, invece, le trovo perfette.

Ora, leggendo e rileggendo i suoi manoscritti, ho visto che Bashō era una penna instancabile, inviava spesso lettere da ogni località che toccava nei suoi viaggi. E questo naturalmente non ci sorprende, siccome a quel tempo ogni questione andava risolta attraverso le lettere.

In quell’enorme corpus di missive se ne possono trovare alcune che rivelano il carattere del poeta.

La prima è una lettera risalente all’ottavo giorno del secondo mese del sesto anno Genroku [1693], contenente la richiesta di un prestito.

A Suganuma Geki (Kyokusui)

Mi permetto di chiederti un favore. Ti avanzasse qualcosa dalle tue spese, ti sarei infinitamente grato se potessi prestarmi un ryō e mezzo. Certamente spero in una risposta di assenso.

Per quanto il fatto di chiedere soldi in prestito a un discepolo rappresentasse per lui una situazione penosa, il tono di Basho è elegante. Nonostante stia chiedendo dei soldi, non utilizza frasi servili, ma muove la sua richiesta con atteggiamento disinvolto e rilassato.

La seconda lettera è una lettera di testamento. Destinata al fratello Matsuo Hanzaemon, risale al decimo giorno del decimo mese del settimo anno Genroku [1694]:

Devo purtroppo pensare che presto ti lascerò. Ma ti auguro di invecchiare assistito da [tuo figlio] Mataemon e di concludere serenamente i tuoi giorni. Non ho altro da dire. Porta un saluto [ai miei discepoli], Ichibei, Jiemon, eIsen [Kubota] e gli altri. E specialmente a Jiemon e Hattori. So quanto saranno addolorate tua moglie e la nostra sorella più giovane.

Questa lettera, scritta a soli due giorni dalla morte, è solenne. Il senso è: “Presto morirò. Non mi rimane altro da dire”. Inoltre, quell’incipit(“presto ti lascerò”) è pieno di pathos.

Ciò che accomuna le due lettere è la concisione. Due temi spiacevoli come la morte o i soldi, sono trattati in modo fresco e conciso.

Come si dice spesso, “la lettera rappresenta la persona”. A differenza di un’opera letteraria, la lettera nella forma e nel contenuto esprime in modo stupefacente il carattere dell’individuo. Da questi due sembra emergere un’immagine in qualche modo stoica di Basho.

Il mio poeta preferito, anzi, quello che più mi interessa è Kubota Mantaro, ma questo poeta – cosa inimmaginabile per un uomo dalla corporatura così imponente – scriveva i caratteri minuscoli come pulci. I suoi haiku sono qualcosa di meraviglioso, ma appaiono microscopici e scritti con una pessima calligrafia. Ho sentito dire che Mantaro era incredibilmente timido. Forse – perché no – è proprio quella timidezza che emerge nella sua calligrafia.

* Articolo tratto dalla rivista di calligrafia “Sumie”, novembre/dicembre 1994

 

Yugen: la via di intenerire dèi e demoni




Come descrivere un’emozione inesprimibile? Come parlare di un sentimento per il quale le parole non bastano, come quando si osserva il cielo al tramonto e si prova commozione senza saperne il perché? Secondo il poeta e saggista Kamo no Chomei (1155- 1216), la chiave e la possibilità di espressione di tale emozione stanno nel concetto giapponese di yūgen.

La parola yūgen, infatti, racchiude in sé il significato di mistero, grazia e profondità ineffabili, e deriva dal termine religioso cinese you xuàn. Tale parola si presume fosse utilizzata nell’antica Cina per riferirsi ad un mondo dopo la morte, e da qui si pensa essere nato il suo significato di “oscuro” e “misterioso”.

Trapiantato in Giappone, invece, il concetto di yūgen diventa fondamentale canone estetico del teatro nō di Zeami Motokiyo (assumendo la sfumatura di “grazia ineffabile”), e di alcuni poeti del periodo Kamakura Muromachi, quali il sopracitato Kamo no Chomei. Insieme con la diffusione del Buddhismo Tendai, quest’epoca si contraddistingue dal periodo Heian per la sempre maggiore ricerca di semplicità e profondità. Per questo motivo la presenza dello yūgen diviene tratto distintivo della poesia del periodo Kamakura.

Come riportato in alcune poesie raccolte da Mibu no Tadamine, si può notare come l’ideale estetico dello yūgen sia sovente legato al mondo naturale e alla sua bellezza, se non anche al sentimento amoroso non corrisposto, provato da una donna triste ma bella, che affronta tali emozioni in solitudine.

È proprio Chomei a portare come esempio l’immagine di un crepuscolo, senza colori né suoni, che nella sua semplicità ci porta a versare una lacrima, senza capire come o perché. Per il poeta lo yūgen sottende una sensazione profonda esperita da più sensi e la esprime con il minor numero possibile di parole. In tal modo si può raggiungere la capacità di smuovere il cielo e la terra, o la via di intenerire dei e demoni.

Clicca qui per leggere di più sullo yūgen. 

Irene Canuto


A cura di Matilde Mastrangelo
Editore: Go Book, Merate

La trilogia tedesca di Mori Ogai
(recensione di F. Maisto, Liceo Gioia, Piacenza)


Mori Ogai, pseudonimo dello scrittore giapponese Mori Rintaro (1862 – 1922), è considerato uno dei principali esponenti della corrente romantica nipponica, famoso soprattutto per aver tradotto per primo diverse opere europee, facendo così conoscere ai giapponesi scrittori come Goethe, Shakespeare, Poe, D’Annunzio, e per la Trilogia Tedesca, ispirata al suo soggiorno in Germania e composta da tre brevi racconti: Maihime ("La ballerina", 1890), Utakata no ki ("Ricordi di vite effimere", 1890) e Fumizukai ("Il messaggero", 1891).

Il più famoso dei tre racconti è il primo, La ballerina, considerato in Giappone una classicissima storia d’amore. Il protagonista è Ota Toyotaro, studente giapponese che riceve una borsa di studio per proseguire i suoi studi a Berlino, dove conoscerà una giovane ballerina di nome Elise, della quale si innamorerà. Prima del fatidico incontro, tuttavia, il suo animo e, di conseguenza, i suoi modi ed abitudini, cambieranno radicalmente, dall’accettazione passiva del proprio futuro prestabilito («Avevo tenuto fede alle ultime volontà di mio padre e avevo seguito i suggerimenti di mia madre; avevo studiato con impegno, felice di essere considerato un bambino prodigio, e poi, soddisfatto dell’incoraggiamento e dell’appoggio che avevo ottenuto dal mio superiore, avevo lavorato senza tregua; tuttavia non avevo compreso che ero un individuo passivo che agiva meccanicamente, senza conoscere se stesso») alla voglia di raggiungere un’indipendenza nell’opinione e nel pensiero («Mi rendevo conto che non mi stava più bene fare il politico dalla brillante carriera, che non si confaceva a me diventare un giurista esemplare nella conoscenza e nell’applicazione dei codici»), e ancora: «All’università lasciai le lezioni di giurisprudenza per rivolgere il mio interesse alla storia e alla letteratura e ciò mi permise finalmente di coltivare quello che più mi attirava»).

Eppure, questo cambiamento non sarà ben accetto al suo superiore, il quale «di certo non era felice che io avessi dei pensieri miei, diversi da quelli degli altri», e che alla prima occasione gli revocherà la borsa di studio. Da allora in avanti, Ota si renderà sempre più conto di quanto l’indipendenza da lui desiderata sia fonte di diversi problemi in termini di reputazione, ma anche di un disagio che, non appena gli si presenterà l’occasione di essere riammesso onorevolmente nei ranghi e di rimpatriare, lo porterà ad abbandonare Elise e il tipo di libertà per il quale aveva faticosamente lottato.

Ricordi di vite effimere si apre con Kose, giovane artista giapponese, appena arrivato a Monaco di Baviera per studiare arte presso l’Accademia di Belle Arti della città. Presentato a un gruppo di altri studenti dall’amico che l’aveva condotto con sé in Germania, Kose inizierà a raccontare il motivo della sua visita: un quadro incompiuto, ispirato ad un fugace incontro durante il suo primo soggiorno nella capitale della Baviera. Terminato il racconto si rivelerà l’inatteso legame tra Marie, l’unica donna seduta tra gli artisti, e la storia del forestiero.

Da quel momento tra i due giovani si instaurerà un formale rapporto artista-modella che con il tempo si trasformerà in qualcosa di sempre più intimo e incantevolmente irrazionale, un sentimento fatto di rievocazioni del passato, segreti condivisi, paure… L’improvvisa e prematura morte di lei lascerà nell’animo trasformato del protagonista un’angosciante sensazione di impermanenza e caducità («Oggi, non c’è che oggi. Cosa potrei farmene di ieri? Domani, dopodomani, sono parole prive di significato, del tutto vuote»).

Nell’ultimo racconto della trilogia, Il messaggero, il protagonista è il giovane ufficiale Kobayashi che, seduto al tavolo con altri ufficiali, racconta del periodo in cui, affiliato a uno dei corpi d’armata del luogo, dovette recarsi in Sassonia. Qui conobbe le benevolenze della famiglia del conte Bulow, padrone del castello di Doben, alla quale apparteneva anche la giovane nobildonna Ida, la maggiore delle sorelle, nonché la più fascinosamente virtuosa e misteriosamente riservata.

Ida vivrà per tutto il racconto un forte disagio legato a un desiderio fremente d’individualismo e libertà; desiderio che si manifesta nella volontà di scegliere da sé il proprio sposo e non accettarne uno imposto dalla famiglia. Una parente contessa le viene in aiuto raccomandandola affinché possa prestare servizio a Corte «…dove al pari della Chiesa Cattolica Romana si conosce l’etichetta, ma si ignorano le passioni». Tuttavia, per ottenere questo aiuto, Ida ha bisogno di Kobayashi, il quale, segretamente innamorato di lei, si presta a farle da messaggero, anche se in questo modo finirà per perderla («La sua figura si confuse tra loro, e mentre si allontanava sempre più, di lei rimase soltanto il vestito di gala azzurro che spuntava ogni tanto tra la folla»).

Il registro comune dei tre racconti si può classificare come medio, senza uso di termini tecnici o difficilmente comprensibili, eccezion fatta per alcune, rare, parole tedesche, giapponesi o latine (veilchen, gefallig, kiseru, nihil admirari). Ciononostante, si nota fin da subito l’interesse dell’autore nel rendere le trame fantasiose quanto più realistiche, inserendole in un contesto storico, sociale e culturale, reale e contemporaneo allo scrittore; contesto che spicca attraverso l’uso deliberato di nomi in lingua madre di strade e opere importanti, nonché nelle dettagliate descrizioni di panorami ed ambienti, usi e costumi, che facilitano l’immedesimazione del lettore in un visitatore forestiero dell’epoca.

Il genere sentimentale e drammatico di questa trilogia rende appieno l’idea del romanzo romantico, che tende a fare dei personaggi della storia semplici marionette, mosse da quelli che sono i veri protagonisti della storia, ovvero la continua ricerca di una piena realizzazione individuale e il desiderio di un’utopica armonia, sempre fragile e irraggiungibile. È allora, quando la pace e la libertà a lungo desiderate e dolorosamente raggiunte crollano, irrecuperabili, che subentra l’eterna melanconia e la consapevolezza di non poter tornare indietro o rimediare in alcun modo.

Nei primi due racconti, la protagonista/marionetta è vittima del caso o di qualcosa a cui non può sfuggire, né può impedire. Il protagonista maschile, invece, è il colpevole mai colpevolizzato, se non da se stesso, puntualmente destinato a essere consumato dal rimorso alla luce del verificarsi di circostanze irreversibili. Nell’ultimo, invece, il maschio non è per nulla colpevolizzabile; piuttosto potrebbe essere definito come un semplice spettatore, impotente dinanzi al destino e alle scelte della sua amata, che, a differenza delle figure femminili dei racconti precedenti, non lo amerà mai. Così, Il Romanticismo e l’Effimero raccoglie una serie di racconti dai toni contrastanti, ma dal comune finale malinconico; racconti percorsi da forti emozioni e quadri di una lontana quotidianità che a noi appare estranea e favolosa, romanticamente consapevoli della qualità effimera dell’esistenza.

Letteratura

Jisei. Poesie dell'addio
Autore: Ornella Civardi (a cura di)
Editore: SE, Milano

Jisei, l’addio diventa poesia.
Cento autori del Sol Levante
(intervista alla curatrice)


Il mondo che sto per lasciare. È il leit motiv di “Jisei. Poesie dell’addio” (Edizioni SE, 128 pagine, 14 euro) un’antologia fresca di stampa curata dalla piacentina Ornella Civardi, traduttrice e yamatologa fra le più apprezzate in Italia. Jisei è, in giapponese, l’ultimo breve componimento prima del passo più difficile. Un congedo dalla vita. In questo prezioso volumetto – capace di stregare per la raffinatezza e l’intensità dei versi brevi come lampi – le parole ultime hanno un peso speciale, ma verrebbe da dire una speciale levità, persino quando la morte viene affrontata con il sarcasmo, con una sorta di cinico distacco, più spesso con voce intima e pacificata. Il saluto è il distillato estremo di un’esistenza, consegnato a chi ci è prossimo o lontano. È “ponte” tra l’essere e il nulla. Ce ne sono cento di queste sorprendenti poesie, si parte, fra gli autori, dalla grande Ono no Komachi per attraversare nomi ben noti al grande pubblico come Hokusai e Mishima o il kamikaze Yamamoto.

Come nasce quest’antologia di cento componimenti e quali sfide ha posto alla traduttrice?
Come molti dei miei libri, anche questo s’inscrive in un mio personale percorso esistenziale. Viene un momento nella vita di chiunque, credo, in cui ci si comincia a interrogare sull’atteggiamento con cui si sta affrontando il proprio destino, il proprio esserci e il proprio inevitabile, futuro non-esserci. Si comprende allora anche l’importanza che può avere lasciare qualcosa di sé, qualcosa che ci riassuma e in qualche modo ci proietti oltre la nostra fine. Io conoscevo da molto tempo questa tradizione, tutta giapponese, antichissima, di lasciare un’ultima poesia, una poesia-testamento, ma solo qualche tempo fa, di colpo, ho capito tutto il valore di questa pratica. Così mi sono buttata a cercare, raccogliere, catalogare queste centinaia e centinaia di jisei (così si chiamano in giapponese), che sono sparsi nei documenti più svariati, le antologie dei poeti, le cronache storiche, i racconti delle vite dei maestri zen e così via. Prima che di traduzione, quindi, si è trattato di un lavoro sulle fonti, di recupero e selezione dei testi.

Generali, monaci, principi, samurai, ex prostitute, cortigiane, maestri di cerimonie del Tè o creatori di giardini Zen. E poi scrittori, artisti, persino un pilota kamikaze. Gli autori delle poesie dell’addio offrono uno specchio della più varia umanità. Da cosa sono spinti a “coltivare” il distacco?
Jisei significa letteralmente «addio al mondo, commiato dal mondo». Questo estremo saluto ha un senso e un tono diverso per ciascuno, ma per tutti rappresenta in qualche modo un tentativo di mitigare l’angoscia della morte, di affrontare lo spavento dell’ignoto che attende appena oltre la soglia, il Vuoto che digrigna i denti, come dice il maestro zen Daitō Kokushi nel suo jisei del 1338.

Lei ha scelto componimenti a partire dal 900 e fino al 1970. In molti si sente l’influsso di una visione buddista del mondo. Il congedo terreno è percepito come illuminazione, ma anche come spettacolare capriola, sovvertimento cosmico, tra il tono liturgico, quello malinconico e talvolta umoristico.
È vero, c’è tutta una gamma di linguaggi e stili molto differenti. Si può distinguere a prima vista il jisei di un principe o di un nobile di corte da quello di un samurai, anche senza leggere il nome dell’autore. Il primo sarà di una estenuata malinconia, quasi certamente parlerà di fiori e di uccelli, della neve che cade sui susini e delle foglie secche levate dal vento, il secondo sottolineerà l’impavidità del guerriero, lo sprezzo della morte, la lealtà nei confronti del proprio signore o della patria. Ancora diverse sono le ultime poesie dei monaci, che trasferiscono nei loro versi il linguaggio immaginifico, folle, visionario dei testi sapienziali dello zen. Per un monaco la morte è sempre un ritorno a casa, al grembo da cui è stato generato. «A mani vuote sono venuto / me ne vado a piedi nudi, / la partenza e l’arrivo confusi / in un unico segno» scrive per esempio Kozan Ikkyō nel suo addio del 1360. E poi ci sono i jisei delle donne, che sono una presenza consistente e anche, direi, portatrice di una propria specificità. I loro addii sono più delicati e introspettivi di quelli maschili, qualche volta più sfrontati nel mettere sulla carta verità molto intime. Fantastica è la dichiarazione di orgoglio femminile della poetessa Yamakawa Tomiko, morta a 26 anni nel 1909: «Ancora una volta / donna voglio nascere / nella prossima vita, / e innamorarmi dei fiori / e farmi incantare dalla luna».

Nei versi ricorrono spesso le immagini dei fiori di ciliegio e della luna, il cuculo fra gli animali è ampiamente citato, questi “veicoli” di emozione a cosa rimandano?
Scorrendo queste poesie si trova tutt’un erbario, un bestiario, un catalogo di fenomeni atmosferici. Qualche volta questi elementi contengono un significato simbolico, per esempio, il plenilunio è metafora della morte, il fiore di ciliegio della fragilità della vita e così via. Ma insieme sono un riferimento alla stagione in corso, che colloca immediatamente la composizione della poesia (e dunque anche la morte del suo autore) in un preciso momento dell’anno. Se si parla di camelie, significa che la poesia è stata scritta d’inverno, la peonia evoca l’estate, la nebbia l’autunno ecc. Questa semplice annotazione sottrae la poesia (e la morte del suo autore) a una dimensione di eternità e la immette nel fluire del tempo. Ponendo l’accento sull’avvicendarsi delle stagioni, sottolinea l’impermanenza, la deperibilità delle cose. Però – e questa è la grande risorsa che mette in campo – parla insieme di eterno ritorno. Certo, la fioritura dei ciliegi è fugace, ma si ripresenterà l’anno prossimo, la cicala è destinata a morire con l’arrivo del freddo, ma ricomparirà puntualmente la prossima estate. Ecco, questo senso della ciclicità ha in sé un enorme potere medicamentoso. Nell’inarrestabile ciclo della natura, vita e morte non solo si alternano, ma si originano l’un l’altra: in ogni cosa che finisce è già presente l’inizio di qualcos’altro. Questa idea contiene una grande disciplina di accettazione del proprio destino.

Leggendo certe composizioni si direbbe che emerga una bellezza del mondo del tutto nuova negli occhi di chi è già consegnato alla morte. L’imminenza della perdita rende lo sguardo più limpido?
Sì, l’abitudine appanna lo sguardo, porta a dare per scontato quello che si ha, a non vederlo più. Ma come il pericolo di perdere una persona amata ce la fa amare di più, così la consapevolezza che quanto abbiamo intorno sia un possesso sempre provvisorio, sempre sul punto di esserci sottratto, rende più preziosa la bellezza del mondo. Il fiore di ciliegio è tanto più incantevole perché non dura.

A volte il distacco è aspro, spesso è consolatorio, quasi che l’io, cedendo il passo, venisse riassorbito e riaccolto nella natura e ridiventando natura trovasse il senso. Un messaggio “terapeutico” sempre attuale nella poesia giapponese dei nostri giorni?
Il messaggio rimane attuale, ma la tradizione dell’ultima poesia, nei ritmi convulsi della società di oggi, si va inesorabilmente perdendo. C’è però un epigono illustre del 2010, che circola sul web in varie lingue, lasciato da un grande regista di anime, Satoshi Kon. Segno che la funzione del jisei non è ancora del tutto esaurita.

Patrizia Soffientini
dal quotidiano "Libertà" del 7 aprile 2017